by Sergio Segio | 14 Maggio 2013 6:40
Dopo aver descritto nel libro Talebani (2001) l’ascesa dei movimenti islamisti in Afghanistan negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e nel successivo Caos Asia i primi otto anni di «guerra al terrore» post 11 settembre 2001, il giornalista e analista pachistano Ahmed Rashid torna a occuparsi di una delle regioni più conflittuali del pianeta. Lo fa con Pericolo Pakistan (Feltrinelli 2013, pp. 219, euro 16, traduzione Bruno Amato), un libro che l’autore – collaboratore dei quotidiani Financial Times e New York Times e della New York Review of Books -, presenta come una raccolta di saggi, più che come «un’epica storica, una storia dettagliata o il taccuino di un reporter».
A dispetto del titolo, che sembra alludere a un interesse esclusivo per il «paese dei puri», Rashid concede spazio sia al Pakistan sia all’Afghanistan, consapevole di quanto la storia passata e i destini futuri dei due paesi siano intrecciati. Il terzo attore protagonista di Pericolo Pakistan sono gli Stati Uniti, in particolare l’amministrazione Obama, le cui politiche verso l’area «Af-Pak» Rashid considera del tutto deludenti, incoerenti e negative: «È innegabile che la situazione militare e politica tanto in Afghanistan quanto in Pakistan si è sensibilmente deteriorata da quando Obama è presidente», sintetizza il giornalista pachistano nella prefazione.
La storia ripercorsa da Rashid comincia alla mezzanotte dell’1 maggio 2011, quando la sesta squadra di Navy Seals, l’unità meglio addestrata delle forze speciali americane, decolla dalla base aerea americana di Jalalabad, nel sudest dell’Afghanistan, per arrivare ad Abbottabad, in Pakistan nordoccidentale. È lì, in un compound protetto da alte mura e sorvegliato da mesi dagli uomini dell’intelligence, che viene ucciso con una pallottola alla testa e una al petto Osama bin Laden. L’omicidio dello sceicco saudita che con sguardo messianico, gesti stanchi e suadenti e un imponente serbatoio di finanziamenti e retorica jihadista per più di vent’anni – dalla creazione nel 1988 di al-Qaeda al-Askariyya (la «base militare») – ha ridisegnato la mappa politico-militare dell’islamismo radicale viene accolta con un enfatico «giustizia è stata fatta» dal presidente Barack Obama. In Pakistan, però, «la ricaduta politica della morte di Bin Laden è particolarmente pesante»: nei giorni successivi all’omicidio l’amministrazione americana deve fare i conti con la dura, anche se tardiva reazione dei vertici militari pachistani, che lamentano la violazione della sovranità locale.
Si apre un duro braccio di ferro tra Washington e Islamabad, che deteriora un rapporto già segnato da reciproci sospetti e mancanza di fiducia. Alti funzionari statunitensi accusano apertamente i pachistani – in particolare l’onnipotente Inter-Services Intelligence Directorate (Isi), il servizio di informazioni dell’esercito – di aver dato protezione a Bin Laden. I pachistani negano, ricordando l’alto numero di soldati e civili persi nella battaglia contro i terroristi. Ma il danno d’immagine ormai è fatto: il governo pachistano o è «totalmente colpevole» (perché colluso con il terrorismo jihadista) o «totalmente incompetente» (perché incapace di scovare Bin Laden, residente da almeno cinque anni ad Abbottabad).
Il ritrovamento di Bin Laden in quella che è considerata la West Point pachistana, cittadina di soldati a riposo e di caserme militari, illumina per Rashid la fragilità del Pakistan, «il paese più instabile ed esposto alla violenza terroristica, al cambiamento politico e al collasso economico», un paese con una leadership militare e civile del tutto incapace e, soprattutto, con un esercito potente che detta la politica estera, assorbe un terzo del bilancio statale, gestisce diversi servizi segreti e che «ha governato il Pakistan per trentatré dei suoi sessantaquattro anni di vita» (il libro è stato scritto alla fine del 2011, ndr), sciogliendo per quattro volte governi regolarmente eletti.
A rischio di «isolamento internazionale, anarchia, guerra civile, colpo di stato da parte di militanti islamici», il Pakistan per Rashid deve molta della sua attuale instabilità all’incapacità dell’élite politica «di stabilire un’identità nazionale coerente, capace di unire la nazione», oltre che alla definizione da parte dei militari dell’identità nazionale «in termini difensivi, come uno stato di sicurezza nazionale». Da qui, dall’ossessione di un accerchiamento da parte dell’India – con cui è aperto il contenzioso sul Kashmir – deriva la subalternità dei civili ai militari, oltre che la dipendenza dai «gruppi jihadisti come surrogato di una vera politica estera».
Oltre alla diplomazia e agli scambi commerciali, nota Rashid, il Pakistan usa infatti «i militanti islamici – gruppi jihadisti, attori non statali – per mettere in atto le sue linee di politica estera e di difesa». Il ricorso a forze irregolari avviene per la prima volta «subito dopo la proclamazione dell’indipendenza, nel 1947, allorché il Pakistan invia migliaia di uomini armati delle tribù pashtun a combattere le forze indiane nel Kashmir, innescando il primo conflitto indo-pachistano». Da allora, la storia si ripete, con il sostegno a gruppi anti-indiani come Lashkar-e-Taiba (Lt), fondato nel 1982, o come Harkat-ul-Jihad-al-Islami, fondato nel 1984. Dal 1997, però, il Pakistan comincia a perdere il controllo dei gruppi islamisti, e dieci anni dopo, 12 dicembre del 2007, nel Waziristan del nord viene formato il Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp), il movimento dei talebani pachistani, che ambisce un governo islamico e alla sconfitta dei militari.
Il doppiogiochismo si rivela dunque controproducente per quegli stessi militari che l’hanno adottato come paradigma di politica estera, e diventa sempre più difficile da accettare anche per gli Stati Uniti. Dopo l’11 settembre 2001, in cambio di sostanziosi aiuti economici, l’esercito pachistano appoggia infatti la Cia nei confronti di Al Qaeda, ma continua a pretendere che i talebani afghani – soprattutto la rete Haqqani – rimangano una longa manus pachistana, usata per imporre le proprie condizioni in un negoziato politico che stenta a decollare. Ed è proprio questa una delle critiche più severe che Rashid rivolge all’amministrazione Obama sull’Afghanistan: il non aver imposto al Pakistan di recedere dalla politica di protezione dei talebani, e, soprattutto, l’aver privilegiato per lungo tempo l’opzione militare, a scapito di quella politica e negoziale. La «concentrazione pressoché esclusiva sull’impegno militare», scrive Rashid, avrebbe ostacolato una più ampia discussione su questioni strategiche importanti: «il futuro economico, politico e sociale dell’Afghanistan; i colloqui di pace con i talebani; e la politica Usa verso il Pakistan». Ma l’errore principale degli Stati Uniti rimane per Rashid il «non aver saputo precisare i propri obiettivi nella regione al di là del 2014», la data del ritiro delle truppe Isaf-Nato dall’Afghanistan. Gli Stati Uniti «vogliono stabilizzare il Pakistan e l’Afghanistan, o mirano piuttosto a cercare di contenere se non a sfidare Iran e Cina? Oppure preferirebbero lasciare la regione nelle mani di alleati fidati come l’India e la Turchia – la via più sicura per mettersi contro il Pakistan?». Domande ancora senza risposta.
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