by Sergio Segio | 22 Maggio 2013 8:13
MOORE — Prima l’odore, un misto di gas, polvere fradicia e muffa: ti entra nelle narici, si conficca nella testa. Poi queste gocce sciolte di vetro, plastica, legno e foglie che volano nell’aria densa di umidità . E infine le lacrime che si impastano al rumore dei martelli pneumatici, delle ruspe, delle pale che scavano tra le macerie nel tentativo di trovare ancora qualcuno vivo. Moore, il paesone di 55mila abitanti a sud di Oklahoma city, è l’epicentro del tornado che lunedì ha cambiato la geografia di questa parte d’America, con un bilancio in equilibrio tra speranza e disperazione: ora siamo a 24 morti, tra cui 9 bambini, oltre duecento feriti.
La Plaza Towers Elementary School è il cuore dell’epicentro: qui si ascoltano i battiti della tragedia. Qui sono morti sette bambini travolti dal crollo della loro scuola, che, come spiegano gli esperti, «era sull’esatta traiettoria della tempesta». Come essere colpiti da un’enorme palla da bowling lanciata ad oltre trecento chilometri all’ora. Alle cinque del pomeriggio sono in settanta nelle classi. Stanno preparando gli zaini, li aspetta la merenda e la partita con gli amici. Una di loro, Clara, si affaccia alla finestra vede un piccolo puntino nero, laggiù in fondo dove svaporano le case. Ci fa caso perché ha un colore strano, che lei una nuvola così non l’ha mai vista. Ma la maestra la richiama e lei non ci pensa più. Poi arriva l’allarme generale, che in questa terra abituata alle sberle della natura, di solito funziona bene, ma questa volta ha solo sedici minuti di anticipo. Impossibile far uscire gli alunni. Gli insegnanti decidono di rimanere qui, spingono i piccoli vicino al muro maestro, «quello che ha sempre resistito», poi, quando il rumore inizia a farsi più intenso, da cupo brontolio a boato, urlano: «State giù, mettetevi le mani sulla testa e rannicchiatevi».
Ma il fortino non resiste molto: i muri tremano, i bambini vedono dalle finestre auto che si schiantano dopo voli di centinaia di metri. Gridano. Le maestre fanno scudo con i loro corpi, si sdraiano su di loro. Il fortino è di carta, dopo qualche minuto va in pezzi come tutto quello che c’è attorno nel raggio di tre chilometri. Quando arrivano i primi soccorsi per un attimo non capiscono nemmeno cos’è quel mucchio di sassi. E’ solo un attimo poi urlano: «La scuola, la scuola. I nostri ragazzi». Iniziano subito a scavare. Ci sono volontari, vigili del fuoco e polizia. Poi quando fa sera tocca alla Guardia Nazionale che usa i rilevatori di calore per individuare le persone sepolte sotto quello strato pesantissimo di macerie, dove il fango si è presto seccato diventando duro come il cemento. Circa trenta vengono tirati fuori salvi, in tutta la zona saranno oltre cento le persone estratte ancora vive. I bambini escono abbracciano i genitori, che se li stringono sino a soffocare. Parlano tutti del rumore: «Un tuono, no un treno, no una bomba». Parlano del terrore, sgranano gli occhi. Sono minuscoli dentro le loro magliette inzuppate. Per i loro amici è una corsa contro il tempo. Le ore passano e non portano buone notizie. Non si sente più niente. Arrivano anche le squadre speciali dal Texas, con i cani e le attrezzature ultra sofisticate: sono i migliori in questo lavoro.
Molti padri e madri sono corsi qui che il tornado non è ancora finito, non hanno potuto fare niente: solo rifugiarsi dentro una chiesa ad aspettare. Ora aspettano. C’è un papà che ha smesso di piangere, sta lì, la testa tra le mani. Lo sguardo fisso su un puntino che vede solo lui dentro quell’ammasso di niente. Un vigile del fuoco fa un passo verso di lui. Poi rinuncia, ci vuole troppo coraggio. Anche i microfoni delle televisioni si tengono lontani. Poco più in là ci sono due bambine. La più piccola avrà quattro anni è una macchia di colore dentro il grigio uniforme: ha una gonna a fiori, una canottiera rosa, un fiocco viola in testa, sulle spalle una bambola di pezza azzurra, di fianco a lei un’amica unisce le mani come per pregare. Diventerà una delle foto simbolo. In un’altra scuola, la Briarwood Elementary, almeno hanno resistito le mura: le riprese che le televisioni locali rimbalzano a raffica per tutto il giorno ricordano Manhattan, l’11 settembre del 2001. Gli insegnanti escono correndo, i ragazzini in braccio, la faccia bianca e rossa, polvere e sangue. Anche loro sono già stati ribattezzati “gli eroi di Moore”. Come Shermi e Cindi, due maestre che capiscono in anticipo il pericolo e spingono gli alunni dentro i bagni.
Vengono distrutti gli ospedali, almeno tre di cui uno specializzato in pediatria, con i malati messi sotto i letti, nel tentativo di proteggerli.
Oppure chiusi nelle celle frigorifere, che però possono essere un rifugio fatale: una mamma muore così insieme al suo bambino di sette mesi. In quarantamila rimangono senza luce, manca l’acqua potabile in molte zone: non si prova nemmeno a fare un calcolo dei danni economici, di migliaia di negozi restano i cristalli delle vetrine. Le linee telefoniche non funzionano. Le strade per tutta la giornata sono piene di gente che si cerca: amici, fidanzati, mariti, mogli, papà e mamme. Camminano da un posto all’altro, gridano i nomi: “Caleb, Caleb”. E lui è lì a due passi, vivo, tra le braccia di un soccorritore: «Lo sa che è proprio un bravo bambino». La mamma fa sì con la testa.
Sono le immagini dell’apocalisse. I sopravvissuti, scrive un giornale locale, «vagano come zombie». Rovistano in ginocchio là dove sino a poche ore fa c’erano le loro case, inseguono un ricordo a cui aggrapparsi. Uno si affaccia da una finestra, un quadrato di legno con niente attorno: il resto è crollato. Gene Tripp è un vecchietto che, come dice lui «ha visto più uragani che belle donne », sa che qui va così. Ma una devastazione del genere non se la ricorda: nemmeno nel ‘95, nemmeno nel ‘99 quando pure ci fu una strage. E’ sereno ora, i vigili del fuoco gli hanno ritrovato la
sua sedia a dondolo preferita: la piazza nell’erba e fuma. Anche Abby Madi prova a sorridere, tra le braccia tiene il cane Rippy che era scomparso. Lando Hit invece li ha persi i suoi animali: «Ero nella stalla, il cielo è diventato nero e all’improvviso ho visto i miei cavalli che volavano. Sì, volavano, hai capito bene».
«Come è potuto accadere? Come lo spiego a loro? Prima qui c’era la vita e poi, in un istante, più niente. Tutto perduto», singhiozza Norma stringendo i suoi figli.
E su questo caos pieno di nulla dove le auto stanno accartocciate sugli alberi con le ruote all’insù i superstiti non si arrendono. Il sindaco di Moore, Glenn Lewis, è qui che guida la ripresa: «Stiamo già piantando i cartelli stradali». Anche se gli esperti meteo rilanciano nuovi allarmi, che ora coinvolgono tutta la zona che va dal Texas all’Arkansas. E adesso qui è di nuovo tutto nero, ci sono fulmini e tuoni. Attorno alla scuola, circondata ora dalle transenne, si continua a scavare. Come si scava in tutto il paese. Si riaccendono le foto elettriche. Il papà senza nome è ancora lì sotto un cielo di metallo. Gli passano accanto Saundra e suo marito, tengono per mano Carla la piccola della nuvola: «Sai mamma, io l’avevo capito che quella cosa era cattiva».
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