Tra le memorie cancellate della Cina
PINGYAO. La porta proibita è stata aperta, ma la Cina continua a nascondere i suoi segreti. La residenza della famiglia Wang, nel cuore dello Shanxi, è il simbolo straordinario della seconda, dissimulata rivoluzione culturale che sconvolge la nazione. La città -fortezza occupa tre colline di tè solcate dal fiume Fen e appare come un’infinita visione incantata, miracolosamente intatta tra centrali elettriche, fabbriche e squallidi palazzi. Marmi e travi di sandalo, le pietre per scendere dal cavallo, gli ingressi alti in proporzione al lignaggio di chi poteva attraversarli. Due effigi di sasso narrano le genealogie delle stirpi che hanno fondato il primo impero dell’Oriente. Una meraviglia silenziosa e vuota, il tesoro sepolto dell’Asia, l’illusione del mondo come dovrebbe essere. È invece una gigantesca scenografia perfetta, ricostruita da maestri del cinema di Hong Kong. Una copia: non un falso però, la parodia di un’aspirazione sociale, come un rimpianto.
Pechino, per legittimare il presente, reinventa il passato ed eleva ad affare anche le tragedie negate, presentando ai cinesi e al mondo esterno una finta civiltà , caricatura degli imperi cancellati dal socialismo. Il partito, per conservare il potere, nello stesso tempo deporta decine di milioni di persone per poterle sfruttare e controllare, ribattezzando “urbanizzazione”, “sviluppo” e “benessere” l’annientamento della vita nei villaggi. Dopo la furia delle guardie rosse, i capitali dei prìncipi rossi. È trascorso mezzo secolo. Opposti sistemi, stesso obbiettivo: una super- potenza che cresce con la cultura della paura.
Wang Shi, capostipite della famiglia Wang, scese a Lingshi settecento anni fa. La regione, culla della civiltà degli han, era al centro delle vie tra gli altipiani mongoli e i mari del Sudest. Inventò il commercio, tra cui quello del tofu. Otto dinastie e ventuno famiglie, dagli imperatori Yuan fino ai Qing: una fortuna consumata dall’oppio, ai primi del Novecento. La loro città -fortezza a forma di drago aveva 123 corti, giardini, pagode per guardare la luna, le prime scuole private dell’Asia. Mura, “siheyuan” e templi sono ancora qui, assediate dalle miniere di carbone. I rivoluzionari di Mao, nel 1949, invasero i palazzi per consegnarli al popolo ed edificare la “nuova Cina”. C’era anche Liu Zongche, giovane bracciante. «Abbiamo incendiato e rubato — dice accanto al letto dove ha dormito l’imperatrice Cixi in fuga — e nel nome del comunismo ci siamo trasferiti nelle stanze dei Wang». La residenza è diventata la sede del partito, un ospizio e il domicilio di 5mila famiglie. Durante la prima rivoluzione culturale, per scongiurarne l’abbattimento, fu coperta da centinaia di iscrizioni rosse: «Mao Zedong è la stella di salvezza del popolo ». Dieci anni fa però anche questo popolo è stato cacciato. La Cina aveva bisogno di una storia pre-rivoluzionaria, di una tradizione all’altezza della nuova potenza: la gente è finita su una spianata di casermoni squallidi, al di là delle mura che aveva edificato, violato e poi difeso, tra cumuli di polvere nera e i liquami arancioni di una fabbrica di plastica. «Chi non muore in miniera — dice Zhou Hong, venditore di zucche e di tartarughe — oggi lavora alla nuova residenza dei Wang». Lingshi, grazie al carbone e all’alluminio, è tornata la città piùricca del Paese e i privati delle concessioni pubbliche costruiscono ora una copia del palazzo. Diventerà un albergo a cinque stelle, smisurato, per comitive di milionari che nella devastazione industriale vogliono riscoprire le finezze dei Ming. Quasi un chilometro di cinta muraria, alzata con i mattoni sottratti alle residenze d’epoca dei mandarini. I sopravvissuti ai continui contrordini sono disorientati, non sanno più quale storia sia sostenibile, quale attività incoraggiata. Che cosa appartenga a chi e quale sia l’evocato “sogno cinese”. «Ma la gloria dei Wang — sorride l’ultima discendente di Shi, operaia a Taiyuan — è più forte sia del comunismo che del capitalismo». Ha ragione: sono 95 milioni, cognome più diffuso del pianeta.
Una sorte non così indulgente con i signori di Pingyao, «la sola città intatta dell’impero». Non uno di loro, fondatori dell’economia cinese, è sopravvissuto. Il luogo natale delle banche in Oriente è il precipitato di ciò che la Cina è stata e di come è decisa a diventare. Negli ultimi mille anni, la rincorsa tra progresso e annullamento si è concentrata in queste 4mila case, anima politica, economica e religiosa della nazione. Sotto le dinastie Ming e Qing, qui si sono mossi i passi che hanno cambiato il destino dell’umanità . Sono stati inventati il credito, gli assegni, i soldi, le camera dell’industria e del commercio, i manager e perfino le scorte, necessità da cui nacquero le arti marziali. Dall’India, il buddismo si espanse tra i picchi del Wutai Shan, il monte delle cinque terrazze, e nel 1949 lo Shanxi vantava l’80% dei templi in Cina. Pingyao, fino a pochi anni fa, era una città proibita, inaccessibile e perduta, mentre oggi è l’esempio di quel mostro della propaganda che il business rappresenta per la nuova dittatura capitalista di Pechino. Ci si arriva a 300 all’ora, a bordo di treni-missile più moderni di quelli giapponesi.
Dove Mao vietava di andare, i suoi eredi sollecitano a spingersi. Il “gioiello del Medioevo”, da simbolo della “decadenza borghese”, è oggi eletto “motore della civiltà nazionale”. Le giovani guide locali esaltano ciò che condannò i loro genitori a essere “rieducati”: la ricchezza, il commercio, il diritto individuale, il senso religioso, l’industria privata, il successo della Cina nell’era della globalizzazione. Nelle 23 banche imperiali, nelle residenze nobili organizzate secondo le norme dei fengshui e nei templi ridotti a spaccio, fervono i lavori della ristrutturazione di Stato. Rinasce un’incantata vetrina-imitazione della super-potenza cinese che adotta il turismo di massa quale veicolo della civiltà di cui si è resa orfana.
Tutto viene ribattezzato “museo” e gli ambulanti vendono testi che, a seconda dell’anno di edizione, narrano i fatti in modo opposto. A forza di sentir ripetere storie diverse, i cinesi credono a tutte e ognuna risulta indifferente.
Hui Wulin, suonatore di bacinelle piene d’acqua sotto la Torre del mercato, era una Guardia Rossa. Appiccò il fuoco alle dimore Ming dei parenti e dei vicini. «Nel tempo libero — dice — scrosto la calce che ho buttato sugli affreschi nel padiglione dei mille Budda, nel tempio di Shuanglin. Chi mi ordinò di liquidare il vecchio, adesso mi paga per ricostruire una copia come nuova». Tutto patrimonio dell’Unesco: ma l’uomo travestito da mandarino, che per pochi yuan si fa fotografare mentre trascina sul risciò operai camuffati da imperatori, è lo stesso che attaccava il cartello “nemico del popolo” al collo dei “borghesi”, mentre il figlio dell’ex capo del partito ha trasformato in un ristorante, pieno di finti libri Song, vasi di pesci e bonsai, un’ala della banca Ri Sheng Chang, demolita da suo padre. Anche a Pingyao il comunismo aveva consegnato il passato al popolo perché
lo distruggesse: glielo riaffida ora affinché finga di recuperarlo, nel nome del capitalismo, per sentirsi libero grazie all’idea della ricchezza. Molti sono perseguitati dai sensi di colpa e si vergognano di aver trascorso 64 anni a condannare, ignorare, occupare, ristrutturare, reinventare, promuovere e infine a sfruttare in virtù degli stessi ideali. Si chiedono inquieti cosa intenda oggi Pechino quando, omettendo una revisione onesta del passato, riprende a parlare di “diffusione della civiltà ”. Un vecchio professore mi conduce a scoprire il retro delle scintillanti facciate restituite a draghi, antenati e demoni: e una distesa di rovine e di immondizie. Assicura che «conservare la gente nel tritatutto della storia è il sistema meno cruento per impedire che si formino convincimenti profondi, motivati, condivisi e confermati dal tempo». Fondare nuove megalapoli e «urbanizzare la nazione», obiettivo decennale del presidente Xi Jinping, adotta così gli stessi metodi e mira agli stessi obbiettivi che spingono a rifondare copie delle antiche città e a teatralizzare il Paese per ridotarsi patriotticamente dell’impero perduto. «Il risultato — dice Wei Taihou, sette anni in un campo di lavoro per “sovversione” — è sradicare milioni di individui per concentrarli in luoghi senza identità . Orfani imbottiti di proganda neo-nazionalista, dotati di un passato presentabile e consumisti ». Lo Shanxi diventa così l’epicentro della contraddizione cinese, che sfrutta il sogno dell’urbanizzazione per l’attacco estremo sia al maoismo che alla civiltà millenaria che Pechino dichiara di voler riscoprire. Da una parte il ritorno alla bellezza assoluta delle antiche città scomparse, la ricostruzione virtuale, dall’altra l’abbandono dell’equilibrio perfetto dei vecchi villaggi e delle campagne, la demolizione reale. «È la strategia della concentrazione — dice il signor Guo, bigliettaio del deserto tempio di Confucio, in cui non risiede un solo monaco — secondo cui oggi lo sviluppo è controllabile soltanto se tutto si raccoglie dentro pochi perimetri circoscritti: persone, denaro, potere, idee, valori, aspirazioni». A Pingyao, come nella residenza della famiglia Qiao, dove Zhang Yimou ha girato Lanterne Rosse, è così. Un passo più in qui, dove il partito- Stato dispensa crescita del Pil e propaganda, ogni cosa scintilla e la gente sorridente si affolla. Uno più
in là , dove la meravigliosa Cina si ostina misteriosamente a restare, tutto è polveroso, avvelenato e una massa di sconfitti si nasconde. Superare Mao senza confessarlo, archiviare il comunismo senza ammetterlo, riadottare l’imperatore senza rielevarlo sul trono, ritrovare l’idea comune di una storia nazionale senza dirlo, fare soldi senza dover essere anche democratici: il cuore della Cina si regge oggi su un incrocio di assenze e nei centri culturali liquidati dall’ennesimo recupero politico si diffonde la convinzione che resistenza ignorata e dissenso represso, vita nelle regioni e
carriera nelle metropoli, siano connessi da un sommerso ma inconciliabile canale. Lin Siguang, mezzo secolo fa, salvò il Tempio Zhenguo dai maoisti barricandosi all’interno e buttando arti lignei di demoni amputati agli assedianti rivoluzionari. Suo figlio Kong, oggi incolla le stesse divinità millenarie della dinastia Song e le conserva in una grotta, rifiutando di consegnarle a magnati e botteghe camuffate da musei. La vecchia Cina che c’è, contro la finzione della nuova che, nonostante la febbre da export e da soft-power globale, nessuno finora è riuscito davvero a partorire. «Non tutti — dice Ge Bingzhi, che gira Pingyao in bicicletta vendendo latte fresco a domicilio — hanno filo sufficiente per far volare il proprio aquilone in cielo». Quello dello Shanxi resta sotto le nuvole e a Pechino anche gli esordienti prìncipi rossi cominciano a temere che nemmeno il loro vento, la propaganda del loro sogno, riusciranno ad alzarlo.
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