by Sergio Segio | 19 Maggio 2013 8:08
ROMA. Quando è arrivata a Torino Nina Leone aveva diciotto anni. Era il 1982, partiva da Minervino Murge in provincia di Bari. Mille chilometri che l’hanno portata a respirare l’aria della grande città . Una scelta che rivendica ancora oggi, dopo più di vent’anni di Fiat dov’è entrata nel 1988. Ha lavorato a Mirafiori, reparto carrozzerie. Dopo un decennio passato in catena di montaggio le è venuta un’epicondivite, il «gomito del tennista». Troppe ore passate con le braccia tese in alto. Ha continuato sequenziando particolari, i tappetini o il mobiletto accanto al cambio delle autovetture dove di solito si mettono le monetine, ad esempio. Nina ha lavorato fino a quando la produzione della Musa» è terminata. Dal giugno dell’anno scorso è in cassa integrazione a zero ore, come molti altri compagni di lavoro.
Sorride, amara. È passato quasi un anno, sembra un secolo quando entrava nella grande officina che ha alimentato l’orgoglio degli operai specializzati italiani, memoria degli scioperi a gatto selvaggio del 1969 raccontati da Nanni Balestrini in Vogliamo tutto, cuore di un sistema che oggi procede a singhiozzo e minaccia di bloccarsi definitivamente. Mirafiori è diventata l’anello debole nel sistema Fiat riprogettato da Marchionne. La testa della multinazionale torinese sembra essere già a Detroit dopo il trasferimento di Fiat Industrial. A Torino hanno perso il posto 5 mila persone nell’indotto, soprattutto nella componentistica all’avanguardia, per le delocalizzazioni volute dalla multinazionale. Quello in atto è un dissaguamento di saperi, di competenze.
Nina vive con 900 euro al mese, 400 li spende per l’affitto, poi c’è il riscaldamento, luce e gas. «Devo vivere con il resto, con sacrifici e aiuti dei parenti. Ho 50 anni – dice – andrò in pensione tra 16 o 17 anni. Sono vecchia per il mondo del lavoro. Figuriamoci, oggi non ci entrano nemmeno i ragazzi di 30 anni. Alla mia età temo di non trovare un altro posto di lavoro». Nina ha la certezza che il corteo si muova nel silenzio assordante della politica che sta facendo morire il sapere e le aziende. Anzi, c’è proprio uno scollamento totale tra chi vive nella crisi e «una politica che non governa» dice. È contenta che i suoi compagni di Pomigliano abbiano nominato Stefano Rodotà presidente onorario della loro associazione no-profit (Landini ha la tessera numero uno). Il giurista è appena salito sul palco. Nina ne condivide l’impianto culturale, le piace il titolo del suo ultimo libro: «Il diritto ad avere diritti». «Rodotà ha ragione ad affermare il diritto al lavoro, alla democrazia e al reddito minimo garantito per difendere la dignità dell’essere umano. La politica dovrebbe prendersi le sue responsabilità . Invece continuano a parlare di Ruby. Ma che la smettessero». Parla il segretario confederale Cgil Nicola Nicolosi, piuttosto fischiato. Dal prato di San Giovani urla «sciopero generale». Nina è d’accordo. Per lei è l’unico modo per fare vedere che la crisi non riguarda solo i metalmeccanici ma l’intero mondo del lavoro. «In questo corteo ci sono altre categorie Cgil che lo vorrebbero – afferma – chiudono gli ospedali, non ci sono investimenti nella ricerca, i giovani vanno all’estero. Chi può raccogliere tutto questo malessere è solo la confederazione».
Dal palco Nicolosi ha risposto che con Berlusconi la Cgil ne ha fatti sette di scioperi generali. «Io me ne ricordo qualcuno di meno – risponde Nina – Al corteo ho visto molti esodati. Cgil ha fatto solo tre ore di sciopero contro la riforma Fornero delle pensioni. Con la Camusso non mi ricordo uno sciopero generale di otto ore con corteo a Roma. Qual è stata la sua reazione contro la riforma dell’articolo 18? Noi abbiamo visto iscritti e delegati nostri compagni che sono stati licenziati in base alla nuova norma. Lo sciopero è la nostra unica arma». «Tra Fiom e Cgil ci sono divergenze di opinioni» riconosce prima di risalire in pullman per tornare a Torino.
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