Sovraffollamento, l’Italia è al top
Ci consegnano la foto di un sistema in sofferenza un po’ in tutta l’Europa (riguardano ben 47 stati) in particolare per la situazione affollata che registrano, frutto certamente non di casualità , ma di scelte di politica penale attuate in molti stati, con un tasso di affollamento pari a 99.5 detenuti per 100 posti ufficialmente disponibili. Ma l’affollamento – così come le politiche penali – non è distribuito in modo omogeneo e l’Italia sta alle vette della situazione negativa. In questa classifica di «piigs», diversa da quelle riportate dalle solite agenzie di rating che affollano i nostri media, occupa il terzo posto: peggio dell’Italia stanno soltanto la Serbia e la Grecia.
Non sono cose nuove: si conoscono, si pronunciano nei vari convegni, sono alla base di alte e altisonanti affermazioni d’impegno a intervenire, sono all’origine di sentenze di condanna da parte della Corte di Strasburgo per i diritti umani. Eppure restano là , in quelle frasi, a cui non si accompagnano volontà e capacità d’intervento. Infatti, non sono l’esito di una qualche calamità naturale, bensì il risultato di alcune leggi, il cui esito è una forte disparità nell’esercizio concreto della funzione penale che riduce garanzie e alternative a strumenti utili solo a chi ha una solidità sociale ed economica alle spalle e condanna il carcere a essere luogo della materialità della disuguaglianza di classe. Cose che si sanno, ma che colpisce leggere nero su bianco in una statistica ufficiale. Né può attenuare questa sensazione il fatto che i dati si riferiscano al settembre del 2011 (data della rilevazione): infatti, ben poco hanno inciso i provvedimenti che il governo subentrato nel novembre di quell’anno ha adottato fino al termine recente del suo mandato. Provvedimenti che hanno segnato un mutamento dell’approccio culturale al tema e delle volontà espresse dal ministro, ma che si sono rivelati inadeguati rispetto all’ampiezza del problema.
Così oggi ci ritroviamo esattamente nella fotografia che i dati pubblicati riportano. L’informazione su quale sia la situazione dietro le sbarre era del resto ben nota anche prima della loro pubblicazione e continua a costituire un classico esempio di informazione che non produce coscienza politica e azione conseguente: si sa, ma si continua a fare come se non si sapesse, salvo qualche affermazione di buone intenzioni. Ci ritroviamo così a sentire dichiarazioni di solenni impegni, ma anche a registrare che nelle nomine recenti di ministri e sottosegretari essi non si sono tradotti in scelte leggibili. L’unico elemento di novità è nella scesa in campo delle organizzazioni della società civile nel proporre leggi d’iniziativa popolare che affrontano sia il nodo di porre un limite a quella continua produzione di incarcerazione prodotta da norme quali quella sulle droghe o quella sugli sbarramenti alle misure alternative per i recidivi, sia il nodo di riportare il carcere alla legalità costituzionale attraverso una serie d’interventi mirati che incidono sulla quotidianità detentiva. Anche perché sarebbe mistificante ridurre la situazione attuale della detenzione al solo tema dei numeri e degli spazi, senza accorgersi che il problema centrale è quello della indefinibilità di un progetto entro cui dare senso a quanto, come, perché e verso quale futuro, si priva una persona, colpevole di un reato, della propria libertà personale. Senza progetto, il carcere non è soltanto affollato e invivibile, ma è anche inutile e getta su di sé soltanto l’ombra della dimenticanza: quell’ombra che si proietta nel senso di abbandono che può tradursi in autolesionismo e anche in morte.
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