“Slow dress”, sotto il vestito l’etica ecco il vademecum dell’abito solidale

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ROMA — Puoi scegliere quello che mangi, puoi comprare equo e solidale, ma puoi sapere come vesti? No, l’abito etico è una missione impossibile. O quasi. Tra fornitori e subfornitori, produzioni delocalizzate nei Paesi più poveri e difficoltà  di ricostruire l’intera filiera produttiva, nessuno ti garantisce che dietro quell’etichetta non si nasconda un lavoratore sfruttato. O addirittura un bambino. Insomma, quel che indossi potrebbe essere frutto di salari da fame e condizioni di vita inumane. I numeri restano impressionati: stime Usa denunciano che i “vestiti etici” rappresentano solo l’1% dei tremila miliardi di dollari mossi ogni anno dall’industria tessile globale. Eppure non manca un vademecum per le aziende che vogliono essere “buone” e qualche esempio virtuoso da seguire.
A riportare sotto i riflettori le condizioni di vita di molti operai tessili è l’ultima tragedia in Bangladesh, dove il 24 aprile scorso sono morti 1.127 lavoratori nel
crollo di una fabbrica di otto piani. Una situazione di degrado e sfruttamento che ha spinto alcuni marchi, come la Disney, ad annunciare di voler lasciare il Paese. Eppure che in Bangladesh non si rispettino molte convenzioni internazionali sul lavoro lo si sa da tempo. Sulla lista nera finiscono anche Cina, Pakistan e altri Paesi del Sud del mondo. «Noi verifichiamo a campione che i principali criteri sociali, come giuste paghe e diritti sindacali, siano rispettati – spiega Paolo Foglia, responsabile del settore tessile per l’Istituto per la certificazione etica e ambientale – ma questo è un settore opaco e particolarmente a rischio, sia per l’internazionalizzazione delle fasi più intense delle lavorazioni, che per l’incredibile ramificazione tra appalti e subappalti. E così un prodotto per diventare finito salta più volte da un Paese all’altro. Non è un caso che c’è chi sostenga l’impossibilità  o l’inutilità  di certificare gli aspetti sociali delle grandi imprese tessili».
La soluzione giusta non sarebbe però quella di abbandonare al loro destino i Paesi in via di sviluppo: come spiega Charles Kenny su Bloomberg Businessweek, la presenza delle grandi compagnie ha anche migliorato le condizioni di vita in Bangladesh. L’importante è rispettare le regole. A stilare un vademecum ci pensa la “Clean Clothes Campaign”, alleanza internazionale tra sindacati: «Un’azienda che intenda rispettare standard sociali adeguati – sostiene Deborah Lucchetti, portavoce della “Campagna Abiti Puliti” in Italia – deve seguire quattro regole. Primo, come stabilito nel 2011 dalle linee guida Onu “On Business and Human Rights”, le imprese devono sviluppare una mappatura del rischio lungo l’intera filiera produttiva; secondo, devono pubblicare la lista dei loro fornitori per consentire la tracciabilità  dei prodotti; terzo, devono pagare prezzi adeguati ai fornitori riconoscendo il giusto valore al lavoro; quarto, devono promuovere la libertà  d’associazione sindacale ». Un esempio? «Noi continuiamo a chiedere a chiunque operi in Bangladesh di sottoscrivere il Protocollo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi».
Il problema è che gran parte delle multinazionali del vestito risponde dei propri fornitori diretti, ma non della catena infinita dei subfornitori. E così risalire tutta la filiera produttiva diventa un lavoro da 007. «Molte aziende tessili – conferma Eliana Guarnoni, esperta di consumo etico per “Altroconsumo” – si impegnano solo nei confronti degli appalti diretti, mentre nulla sanno o dicono di sapere dei vari subappalti». Eppure non mancano casi di maggiore trasparenza, «come H&M che rende pubblici tutti i fornitori». Non solo: «Anche la Nike ha pubblicato l’intera lista – aggiunge Lucchetti – e pure la Gucci si è dimostrata subito collaborativa». C’è poi una piccola storia virtuosa, tutta italiana. «È il progetto “Made in No” – racconta Lucchetti – una piccola filiera etica e al 100% sostenibile, che rimette al centro il lavoro italiano e costruisce cooperazione con i produttori brasiliani del cotone».


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