Segnali dalle due trincee Il Cavaliere e il «fattore processi»

by Sergio Segio | 11 Maggio 2013 8:24

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E anche i segnali che giungono dai due partiti sono formalmente improntati alla distensione. Perché di lì Epifani — chiamato dai Democratici al ruolo di reggente — sostiene che «la situazione del Paese impone questo governo per stato di necessità ». Di là  Berlusconi — che interpreta la nomina dell’ex segretario della Cgil come «un fattore di stabilizzazione» — dice di aver «apprezzato l’atteggiamento di Enrico Letta», che il giorno dopo la sentenza di condanna del Cavaliere ha convocato il Consiglio dei ministri «prodigandosi per dare una risposta ai problemi del Paese sollevati dal Pdl».
Ma c’è qualcosa che non torna in questa iconografia ufficiale, la percezione che nel Pd e nel Pdl — giorno dopo giorno — ci sia chi lavori ad alzare impercettibilmente l’asticella della provocazione, in attesa della reazione altrui, per scaricare così addosso all’avversario la responsabilità  di un’eventuale crisi. Non è chiaro se si tratti di un riflesso condizionato o se ci sia dell’altro. Lo si capirà  già  oggi se Berlusconi darà  una mano al premier che giura di voler tutelare, o se invece vorrà  dargli una prima picconata. L’altro giorno, a pranzo con la delegazione governativa del Pdl, era parso convincente. L’idea del comizio a Brescia — voluto dall’ala moderata del partito — lo aveva compiaciuto. «Presidente — gli avevano detto in coro ministri e sottosegretari — al tuo segnale noi sgombreremmo in un minuto le nostre scrivanie». «Un passo alla volta», era stata la sua risposta, interpretata da tutti come un passo avanti e non indietro.
Siccome il Cavaliere va interpretato, il dubbio resta, se è vero che dopo Brescia ha avallato un altro appuntamento, organizzato stavolta da Capezzone per lunedì a Milano. E lì potrebbe scoccare la scintilla che innescherebbe il conflitto tra quei due eserciti ammassati alla frontiera. Pare che nemmeno Gianni Letta sia riuscito a convincere Berlusconi di far spostare la riunione dei gruppi parlamentari, convocati a discutere di economia in un albergo a poche centinaia di metri del tribunale dove la Boccassini terrà  la requisitoria sul processo Ruby. Nessuno si muoverà  da quella sala, così dicono gli organizzatori della convention. Ma anche l’11 marzo, il giorno in cui deputati e senatori di centrodestra cantarono l’inno di Mameli, non era prevista la marcia sul palazzo di Giustizia.
Sul fronte opposto, anche i dirigenti del Pd assicurano che per oggi non è prevista a Roma una marcia su palazzo Chigi. Ma è da vedere se il partito reggerà  l’onda d’urto di un’assemblea dove i democratici più che cercare la propria identità , sembrano voler andare a caccia di vendette interne. E chissà  se Bersani — proprio per non danneggiare Enrico Letta — si limiterà  all’autocritica, assumendosi le responsabilità  per la sconfitta, oppure darà  voce a qualcosa che gli rode dentro da settimane. «Perché avrò commesso degli errori e me ne faccio carico», disse il leader dimissionario nel giorno in cui nasceva il governo: «Ma la verità  è che, gratta gratta, contro il mio tentativo alla fine è venuta fuori l’antica pregiudiziale anticomunista. Da parte di Berlusconi? No, dall’interno del mio partito».
È in questa trincea che il premier è costretto a muoversi, tra filo spinato e mine disseminate dappertutto. Ecco il motivo della sua ansia da prestazione, del Consiglio dei ministri convocato in tutta fretta. «La situazione è grave, il Paese ci assedia, serve una risposta subito, non è un assegno in bianco», aveva esordito Franceschini per spingere all’accordo subito sul decreto per l’Imu e la cassa integrazione. Ma al primo giro di tavolo era stato chiaro che il provvedimento non sarebbe stato approvato, che nessuno avrebbe accettato di dare il proprio sì a scatola chiusa. Da una parte il blocco «paneuropeo» con Bonino Moavero e Mauro, dall’altra il blocco di sinistra con Giovannini e la Carrozza, da un’altra ancora il blocco di destra, con Lupi che iniziava a riscaldarsi: «Non penserete di prendere i soldi dal mio dicastero, vero?».
Saccomanni non sarà  Tremonti, ma l’idea che venissero svuotate le casse dei ministeri ha provocato una reazione unitaria. Il fatto è che il titolare dell’Economia deve trovare due miliardi per l’Imu, uno e mezzo per la cassa integrazione, una decina almeno come prima rata dei crediti alle imprese, e intanto si deve preparare al vertice europeo di lunedì: «Mi ha chiamato il commissario agli affari economici Rehn e gli ho assicurato che i saldi resteranno invariati…».
Non è solo un problema di soldi è anche un problema politico, «la difficoltà  â€” come sostiene Alfano — di varare una misura e una contromisura», di approvare cioè contemporaneamente provvedimenti che soddisfino Pd e Pdl, schema che andava di moda ai tempi di Monti. «Ed è una fatica», sospira il vice premier, che durante il Consiglio — quando si è capito che il decreto non avrebbe visto la luce — ha bloccato la discussione: «Colleghi — ha detto volgendo verso di loro l’ipad — sul Corriere online c’è già  scritto che abbiamo fatto una stupidaggine. Perciò mettiamoci d’accordo d’ora in avanti sulle regole d’ingaggio». Basterà ?

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