Se l’utile individuale diventa quello collettivo

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    Un filone di pensiero ha indagato sul rapporto fra felicità  e solidarietà . Una relazione di stretta attualità  Nonostante il suo lessico innovativo – derivato anche da quella competenza immunologica che si sta rivelando il più fruttuoso asse di scorrimento tra i diversi linguaggi contemporanei – i problemi posti da Philippe Kourilsky affondano le loro radici in un orizzonte ampiamente classico. Il loro forte impatto, nel dibattito attuale, nasce dalla sua singolare capacità  di adattarli al contesto contemporaneo attraverso un singolare mix di normativismo e di utilitarismo. Le questioni che egli efficacemente pone, pur senza riuscire del tutto a risolvere, sono essenzialmente due: da un lato il complesso rapporto, all’interno della sfera individuale, tra imperativi ipotetici, subordinati a dati obiettivi, ed imperativi categorici, rispondenti invece a dettami universali della ragione; e dall’altro la relazione tra etica individuale ed etica pubblica. Come si tengono, o addirittura si potenziano a vicenda, gli interessi del singolo individuo con quelli della società ? È possibile configurare qualcosa di apparentemente contraddittorio come una sorta di “egoaltruismo” o di “altruismo liberale”? Il primo dei due problemi – quello dell’eterna lotta tra imperativi ipotetici condizionati ed imperativi categorici liberi da ogni movente empirico – è stato posto, per la prima volta con chiarezza, da Kant. Abbandonando, o riconfigurando in forma del tutto originale, i dettami dell’etica stoica, facenti capo a una razionalità  naturale, e di quella cristiana, sottoposti invece al comando divino, egli distingue i principi pratici in soggettivi e oggettivi. Soltanto i secondi, cioè quelli relativi ad azioni orientate ad un fine puramente razionale, corrispondono a una forma di legislazione universale. È la netta affermazione dell’imperativo categorico. La sua forza – ma anche la sua rigidità , rispetto al carattere più duttile dell’imperativo ipotetico – sta nel fatto che, anziché ridurre la libertà  individuale, al contrario la richiede. Solo se questa non è condizionata da uno scopo di tipo esteriore, la volontà  può sentirsi veramente libera di agire in base a una pura esigenza della ragione.
Naturalmente un simile tipo di filosofia morale, misurata non sugli obiettivi raggiunti, ma sulle intenzioni che muovono le azioni, deve presupporre un’affinità  preliminare tra libertà  e ragione, escludendo dal proprio orizzonte quelle situazioni più opache in cui sensibilità , istinto o passione intervengono ad intorbidire le nostre scelte. È vero che Kant, sapendo che l’uomo è un animale al contempo sensibile e razionale, si sforza di tenere insieme felicità  e virtù – ma può farlo solamente immaginando, come idea della ragione, una concordanza sempre possibile, anche se per nulla provata, tra moralità  e felicità . Perché il suo discorso tocchi terra, bisogna fuoriuscire dal piano individuale ed estenderlo a quello dell’etica sociale. Solo una morale in grado di fare della felicità  altrui la condizione della propria, e viceversa, potrà  risolvere la contraddizione di fondo di una libertà  costretta, per esprimersi in tutta la sua pienezza, a seguire norme categoriche che ne vincolano la condotta.
È il problema del nesso tra utile e bene posto prima da Jeremy Bentham e poi da Stuart Mill secondo quell’indirizzo di pensiero che ha assunto il nome di utilitarismo. Il suo intento di fondo – non dissimile da quello di Kourilsky – è di trasformare la dottrina etica in una vera e propria scienza, come sono la fisica e la matematica. Diversamente dal rigorismo categorico kantiano, per l’utilitarismo, la felicità  o il piacere, derivanti da una data azione, sono proporzionali alla relazione virtuosa tra utile individuale e utile collettivo. In tal modo la felicità  propria non contrasta, ma al contrario dipende da quella altrui. Se autori come Comte avevano insistito sulla generosità  e sul sentimento di solidarietà  come molla dell’interazione sociale, altri, come appunto Bentham e Mill, desumono quest’ultima da una più lungimirante considerazione del proprio interesse. Utile, in termini generali, è ciò che, nell’insieme, minimizza il dolore e massimizza il piacere di un’intera comunità .
Naturalmente, neanche da questo lato si può dire che i problemi siano interamente risolti. Cosa accade quando la concezione del piacere da parte degli uni è tanto eterogenea da non potersi neanche confrontare con quella degli altri? E chi è in grado di misurarne la legittimità . Kant e Sade, ad esempio, avevano idee piuttosto differenti di piacere – come integrarle? La strada intrapresa da Kourilsky va nel senso di una possibile, e opportuna, mediazione tra normativismo kantiano ed utilitarismo postliberale. Solo difendendo e ampliando la libertà  altrui, anche la propria risulterà  potenziata. Da qui un’opportuna rottura con il darwinismo sociale della recente ondata neoliberale. Ma forse anche una certa sottovalutazione del conflitto, di valori e d’interessi, che una società  come la nostra, dalle risorse limitate, inevitabilmente genera.


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