Se lo Stato non conosce i suoi debiti con le imprese

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Se i bilanci delle pubbliche amministrazioni seguissero quei principi, non ci troveremmo oggi di fronte al mistero degli arretrati dovuti ai loro fornitori. Di cui, è follia, non si conosce l’ammontare.
Dieci anni fa già  si parlava di 30 miliardi, saliti a 70 cinque anni dopo e arrivati adesso a 91, anche se c’è chi dice che i miliardi da pagare siano più di 100, forse addirittura 130. Costringere un’impresa ad aspettare anche tre anni, come accade a chi ha la sventura di rifornire certe Asl, per incassare dallo Stato ciò cui ha diritto mentre lo stesso Stato pretende il pagamento delle imposte con precisione cronometrica, applicando sanzioni salatissime a chi sgarra, è inaccettabile in un Paese normale. Doppiamente inaccettabile se questo Paese versa da due anni in una crisi gravissima con le imprese che falliscono a ripetizione, e il pagamento immediato degli arretrati è una delle poche azioni in grado di innescare una minima ripresa.
Ma la nebbia fitta che circonda i dati è, se possibile, fatto ancora più grave. Perché se accanto a una spesa pubblica ormai ben superiore al 50 per cento del Prodotto interno lordo c’è un debito fuori bilancio di un centinaio di miliardi accumulatosi evidentemente negli anni, viene da chiedersi se lo Stato italiano sappia quanto davvero spende ogni anno e dove vada a finire una fetta consistente dei soldi dei contribuenti. Delle due l’una: o sono stati via via presi coscientemente impegni che il bilancio pubblico non poteva mantenere, e questo potrebbe avere implicazioni enormi considerando quella norma voluta dal ministro Tremonti che stabilisce ricadute penali per gli amministratori che se ne rendano responsabili, o più semplicemente i nostri conti pubblici sono in uno stato confusionale. Il fatto è che mentre abbiamo una Ragioneria generale dello Stato diligentissima a sbarrare la porta a ogni disposizione che possa comportare uno scostamento delle previsioni di entrata o di spesa (peraltro quasi sempre sballate), dalla finestra intanto scappano miliardi. Nessuno sa nemmeno quanti. La medesima Ragioneria così attenta all’equilibrio dei nostri conti pubblici ha candidamente ammesso di non essere in grado di conoscere la reale entità  dei pagamenti dovuti ai fornitori, tanto è vero che della rilevazione non si sta occupando una qualche struttura pubblica, bensì le associazioni delle imprese. Fra problemi immensi, compresa la reticenza delle amministrazioni. Due settimane dopo la scadenza del termine perentorio del 29 aprile fissato per la registrazione elettronica necessaria per certificare i crediti e quindi procedere al saldo dei debiti, avevano adempiuto a quell’obbligo appena 5 mila Comuni su oltre 8 mila, 89 Province su 109, diciotto Regioni e Province autonome su 21, sei Provveditorati delle Opere pubbliche su 11 e appena 85 Asl.
Eppure il modo per evitare tutto questo sarebbe facilissimo. Basterebbe iscrivere i debiti con i fornitori in un bilancio consolidato, come prescrivono le norme vigenti per ogni gruppo imprenditoriale che abbia società  controllate o partecipazioni rilevanti. In fin dei conti la situazione dello Stato italiano non è poi tanto diversa, se pensiamo all’amministrazione centrale come una holding con tante controllate quante sono le Regioni e gli enti locali. Per lo Stato italiano, però, è inconcepibile. Perché un bilancio consolidato non presuppone soltanto l’accesso alle informazioni, ma anche l’esistenza a valle di documenti contabili omogenei. Il che, in un Paese nel quale fino a ieri ogni Regione poteva redigere i propri bilanci con principi e metodi diversi rispetto alla Regione confinante, o addirittura esistevano aziende sanitarie dove la contabilità  era una illustre sconosciuta, è fantascienza. Politici, ministri, burocrati: tutti l’hanno sempre saputo, nessuno ha mai voluto davvero risolvere una faccenda in apparenza tanto banale. Il motivo? Lo stesso per cui abbiamo il primato continentale del numero di leggi e contemporaneamente il record europeo di illegalità .


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