Quel melting pot nelle città che farà gli uomini tutti uguali
LONDRA. Forse non ce ne siamo ancora accorti, ma stiamo diventando tutti uguali. Per la prima volta nella storia dell’umanità , più di metà della popolazione mondiale vive in città , e questo sta producendo un effetto non solo culturale, ma anche biologico. «Gli uomini sono oggi più geneticamente simili tra loro di quanto siano mai stati negli ultimi 100 mila anni», afferma il professor Steve Jones, genetista del London University College e uno degli scienziati più noti del pianeta. Non ci siamo mai assomigliati tanto, in altre parole, da quando poche decine di migliaia di Homo Sapiens popolavano l’Africa orientale e cominciavano a diffondersi nel resto del globo.
Geneticamente simili, va precisato, non significa avere tutti lo stesso aspetto, la stessa faccia, lo stesso colore della pelle: vuol dire avere un simile Dna. Ma una cosa è in un certo senso la premessa dell’altra, essendo in ultima analisi la genetica a determinare le caratteristiche del nostro corpo. Nel presentare la tesi dell’ultimo libro del professor Jones, la Bbc parla infatti di «grande omogeneizzazione umana». A determinarla, è l’urbanizzazione. Le città , sebbene rappresentino soltanto il 3 per cento della superficie terrestre, ospitano ora più del 50 per cento della popolazione totale della terra.
Questo processo ha portato nel “melting pot” delle metropoli, nel pentolone di razze dei centri urbani, una quantità senza precedenti di immigrati da tutti i continenti. A New York si parlano 800 lingue. A Londra i bianchi sono adesso una minoranza (appena dieci anni fa erano ancora il 58 per cento). E come conseguenza di questa commistione, le lingue e i dialetti della terra diminuiscono costantemente: ogni due settimane ne scompare una delle 7 mila ancora esistenti.
In sostanza, la multietnicità , producendo società più diversificate dal punto di vista etnico e culturale, porta a mescolare le razze come non era mai accaduto, attraverso i matrimoni misti. Nord e sud, del mondo o di una stessa nazione, si mischiano. E dal cocktail genetico esce poco per volta una nuova specie: l’Homo Unicus. La razza degli uomini tutti uguali, non attraverso un fantascientifico progetto di clonazione, bensì come risultato di una rivoluzione nei trasporti, nel progresso, nello stile di vita.
«È un’evoluzione cominciata con la bicicletta», dice il genetista Jones, con una provocazione che contiene una verità di fondo. Per milioni di anni, fino praticamente a due-tre secoli fa, gli uomini hanno vissuto per lo più nel luogo in cui erano nati. La distanza tra un villaggio e una città , per non parlare di quella tra una nazione e l’altra, tra un continente e l’altro, appariva come quella tra la Terra e la Luna: incolmabile. Le navi dei conquistadores prima, i treni della rivoluzione industriale poi (e la metropolitana, la prima inaugurata a Londra 150 anni or sono), hanno ridotto e infine frantumato quella distanza. Il globale è diventato locale. E la concentrazione sempre più ampia e diffusa di persone di origine etnica e geografica differente all’interno di una stessa città ha creato una miscela dapprima culturale, quindi pure biologica, come non accadeva dall’alba dell’Uomo.
Naturalmente è inesatto dire che siamo tutti uguali. Ma l’urbanizzazione, avverte l’eminente scienziato gallese, ci sta cambiando in modo non solo socioculturale. Possiamo sembrare diversi per ceto, reddito, religione, ma dentro, dal punto di vista scientifico, ci somigliamo quasi come al tempo del primo uomo. Dando ragione a quella vecchia battuta di Albert Einstein, che al funzionario dell’immigrazione di New York, il quale compilando il questionario d’ingresso negli Usa gli chiedeva a che razza appartenesse, rispose senza batter ciglio: «Umana».
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