by Sergio Segio | 11 Maggio 2013 9:01
Aspetto poco rilevato, ha tradito con noncurante protervia il contratto solennemente sottoscritto con l’alleato della coalizione, Sinistra Ecologia e Libertà , costretta a ingoiare i vincoli del fiscal compact imposto da quei superbi uomini di stato che operano a Bruxelles e a Berlino, e a subire un repentino tracollo dei consensi del suo elettorato di riferimento. Il quadro non sarebbe completo se non ricordassimo, come altri hanno già fatto, che anche gli elettori del Popolo delle libertà sono stati traditi: anche costoro non avevano votato per una coalizione di governo col Pd.
Ricordo tutto questo per sottolineare che l’attuale esecutivo non solo si regge sui voti di meno della metà dei potenziali elettori italiani, ma lo fa rovesciando e tradendo il proprio mandato politico. Davvero un evento unico nella storia d’Italia. E un colpo devastante alla credibilità della democrazia rappresentativa. Dunque, il governo Letta dà compiutezza anche simbolica al tracollo storico del sistema politico nazionale: i partiti sono una realtà a sé, chiusi nel proprio sopramondo, ormai disancorati da una società che subisce impotente le loro scelte. Sono diventati una specie di limbo. CONTINUA|PAGINA3 I partiti sono schiacciati in alto dai poteri ottusi e protervi dell’Europa, e pressati in basso dalle masse popolari, che covano ormai contro di essi solo odio e rancore. Quelle masse popolari che, se fossero state ascoltate e mobilitate, avrebbero potuto piegare le resistenze di una politica economica che ormai l’intero orbe terraqueo denuncia come sbagliata.
Nel tracollo del sistema politico, la posizione del Pd è diventata tragica. 101 parlamentari che tradiscono gli accordi del proprio gruppo e che non hanno il coraggio civile di manifestare la propria diserzione, hanno inferto una ferita immedicabile al corpo di un partito già lacerato da innumerevoli conflitti interni. Questo partito, che ha il compito di reggere l’attuale esecutivo, che ha messo docilmente il capo sotto la ghigliottina di Berlusconi, che rischia non solo di perdere le elezioni prossime ma di esplodere per le proprie faide interne, oltre che per la sconfitta probabile, ha poche strade per uscire dal vicolo cieco costruito zelantemente con le proprie mani. Credo che il prossimo congresso straordinario sia forse l’ultima occasione perché il partito democratico mostri alla sinistra e al paese la propria utilità politica, la propria necessità di esistere.
Ma perché questo accada occorre, a mio avviso, che questo congresso sia davvero straordinario, che non si costruisca e si svolga come al solito, con i signori delle tessere che ridisegnano le vecchie geografie oligarchiche al centro e in periferia. Io credo che ci sia una via d’uscita a tale vetusta prassi, la quale non sanerebbe i conflitti interni e riconsegnerebbe alla fine il partito a questo a o quel gruppo maggioritario, lasciando intatta la sua forma oligarchica.
Credo che costituirebbe non solo un risarcimento politico e morale, ma qualcosa di più, se i tre milioni del cosiddetto «popolo delle primarie» rivendicassero il diritto di partecipare ai congressi preparatori che si svolgeranno in tutti i territori del Paese. In queste sedi potrebbe essere messo alla prova quel progetto di «mobilitazione cognitiva», di cui parla Fabrizio Barca nel suo recente documento: vale a dire la partecipazione alla vita dei partiti anche di chi non è iscritto, di chi è semplicemente portatore di idee, conoscenze, rivendicazioni, proposte.
Un congresso che coinvolga i milioni di uomini e donne che si sono messi in fila in tutta Italia per eleggere i leader del centro-sinistra potrebbe immettere nel corpo svuotato del partito un’ondata di fermenti sociali e di conflitti materiali che solo potrebbe rimetterlo in vita. Ma quest’onda potrebbe travolgere utilmente anche i presidi di potere feudale che ancora immobilizzano questo partito non solo nel suo gruppo dirigente centrale, ma anche in periferia. Non bisogna dimenticare che il partito democratico ha in tutto il paese centri di potere clientelare detenuti da pochi dirigenti che spadroneggiano nel partito e nelle amministrazioni locali. Sono figure che interpretano la politica come affare, legate ai poteri economici e soprattutto alla rendita fondiaria, che hanno sfigurato l’immagine della sinistra italiana negli ultimi decenni.
Ebbene, questo è il momento. E forse non ce ne sarà più un altro. È assai probabile che, oltre un congresso in cui non esploda un rinnovamento profondo, non ci sia più né tempo, né spazio per un lavoro di lunga lena, come quello generosamente intrapreso da Fabrizio Barca dentro le maglie organizzative del Pd. Temo che la disperazione sociale toglierà a milioni di italiani la capacità di attendere che questo partito diventi capace di intercettarne le angosce e di approntare qualche via d’uscita. Potrebbero rifugiarsi, come in parte hanno fatto, sotto le più varie e disperate insegne. Mentre c’è un arcipelago di forze di sinistra, portatore di idee e senza potere, che attende un vasto e generale sforzo di raccordo e unificazione: il solo, a quel punto, che potrebbe far rinascere quel partito democratico, popolare e riformatore che manca all’Italia da troppi anni.
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