Processo alla Mela

by Sergio Segio | 22 Maggio 2013 7:08

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NEW YORK. La lunga storia d’amore fra l’America e Apple è proprio finita, stavolta per sempre. Che spettacolo, vedere il successore di Steve Jobs sotto torchio al Congresso, interrogato da una commissione d’inchiesta, trattato alla stregua di un semi-delinquente. In una nazione dove il dovere fiscale è sacro, Apple è diventata il simbolo di una perversione: le multinazionali Usa, più sono grosse e redditizie, meno pagano. È un oltraggio per il contribuente medio, lo spettacolo andato in scena ieri con le riprese tv sull’audizione parlamentare. Gli americani hanno scoperto che la regina della Borsa con una montagna di cash superiore ai 150 miliardi, in alcune sue filiali ha pagato un’aliquota dello 0,05%. Praticamente niente. Dell’indignazione si è fatto interprete il Senato, ieri, in una seduta burrascosa come poche. Era dai tempi del salvataggio di Lehman Brothers, che su Capitol Hill non tirava un’aria di “critica al capitalismo pirata” così bipartisan.
Per una volta d’accordo, i leader democratici e repubblicani hanno bombardato di domande e di accuse l’amministratore delegato di Apple, Tim Cook. Ecco Carl Levin, senatore democratico e presidente della commissione d’indagine: «Apple ha cercato il Sacro Graal dell’elusione fiscale. Ha un comportamento assurdo, che pochi altri hanno osato adottare ». John McCain, repubblicano ed ex candidato alla Casa Bianca: «E’ una violazione scandalosa, siete i campioni dell’elusione fiscale ». Perfino l’ultraliberista Rand Paul, beniamino del Tea Party e fautore della rivolta anti-tasse, ha osservato che «se un manager cercasse di sfuggire al fisco come fa Apple, finirebbe nei guai».
Le conclusioni dell’inchiesta del Congresso sono sconvolgenti.
Gli esperti fiscali di Washington hanno descritto la struttura societaria diApplecome«un’alchimia», una ragnatela di «società  fantasma ». Se qualcuno credeva che le scatole cinesi e le piramidi di controllo fossero invenzioni da paesi di serie B, da capitalismi di periferia, ecco una formidabile sorpresa. L’azienda-simbolo della modernità , la protagonista delle ultime rivoluzioni tecnologiche, fondata da un guru del buddismo zen, dal carismatico Steve Jobs, di fronte al fisco si è comportata con una spregiudicatezza illimitata. Ha disseminato filiali nei 4 continenti, giostrando la collocazione dei suoi profitti nei paradisi fiscali offshore. Ha usato «trame e trucchi», secondo i termini usati dai fiscalisti del Congresso. «Ha superato ogni immaginazione, ha fatto prova di un’arroganza totale», si legge ancora nel rapporto. Tra il 2009 e il 2012, l’imponibile sottratto all’Internal Revenue Service (l’agenzia delle entrate) ha raggiunto i 74 miliardi di dollari. Un esempio significativo è quello della filiale Apple
Operations International. La sede sociale è stata stabilita in Irlanda, negoziando con Dublino uno sconto fiscale generoso: appena il 2% d’imposta sui profitti. Ma per i capi di Apple neanche questo trattamento di favore era sufficiente. Sfruttando un cavillo giuridico, hanno deciso di pagare molto meno. Poiché gli Stati Uniti tassano le società  laddove hanno la loro sede sociale, mentre l’Irlanda le tassa in base al luogo effettivo dove vengono controllate, Tim Cook ha gestito tutti i conti di Apple Operations International dal suo quartier generale californiano (a Cupertino nella Silicon Valley), ma ha “spostato” con un’operazione di contabilità  virtuale nella società  di diritto irlandese ben 30 miliardi di fatturato tra il 2009 e il 2012. Risultato: per gli irlandesi quella società  era americana, per il fisco americano era irlandese. Così quella filiale ha operato in un regime di esenzione fiscale assoluta. Un’altra filiale estera sempre con sede in Irlanda, Apple Sales International, è stata usata per concentrarvi pro-
fitti delle vendite estere di iPhone, iPad, MacBook. Ha fatto 22 miliardi di dollari di utili. Tasse: 10 milioni, ovverosia un’aliquota dello 0,05%. Una vergogna di cui il senatore Levine si è fatto interprete così: «Le imposte che Apple ha eluso sono finite sulle spalle di altri contribuenti: famiglie di lavoratori, piccole imprese».
Per il mito di Apple, forse questa è davvero la parola fine. Già  il ricordo di Steve Jobs si era appannato molto dopo la sua morte, con lo scandalo della Foxconn. E’ il nome della fabbrica cinese che assembla prodotti Apple a Shenzhen, dove si sono verificati suicidi di operai e scioperi selvaggi per le condizioni di sfruttamento disumane. Lo stillicidio di notizie
dalla Cina aveva intaccato il mito hippy di Jobs, quel suo richiamo costante alla cultura californiana, trasgressiva e progressista. Ma per il consumatore americano, per l’utente medio degli iPhone e degli iPad, il colpo di grazia che è arrivato ieri è perfino più grave. Perché stavolta l’americano medio si sente gabbato e offeso in uno dei suoi doveri fondamentali di cittadino, quello fiscale. Assume un significato nuovo quella montagna di contante di cui Apple andava orgogliosa, i 150 miliardi che ne fanno l’azienda più “liquida” del pianeta. I due terzi di quel tesoro sono custoditi all’estero, in paradisi offshore. Quando Apple ha deciso di remunerare meglio i suoi azionisti, ha preferito indebitarsi emettendo obbligazioni, anziché far rientrare una parte di quei capitali: non sia mai detto che debba pagarci le tasse…
«Ma voi siete ancora un’azienda americana?»: è la domanda tutt’altro che ironica, semmai angosciata, che diversi senatori hanno lanciato ieri a Cook. C’è perfino il sospetto che i “gioielli della corona”, cioè i diritti di proprietà  intellettuale sulle sue invenzioni, facciano capo a società  estero-vestite. Alla faccia della California hippy, del buddismo zen, di quell’aria da sognatore raffinato con cui Jobs ipnotizzava le masse, Apple ha gettato la maschera e lo spettacolo lascia inorriditi. Quasi peggiore è l’autodifesa di Cook. Che ieri al Senato ha ripetuto imperturbabile: non abbiamo violato nessuna legge, siete voi a dover cambiare le regole fiscali se non volete costringere le imprese a cercarsi paradisi offshore. Cook si è vantato di «dare lavoro a 600.000 americani». Ciascuno dei quali è soggetto a un’aliquota d’imposta sul reddito che varia dal decuplo al centuplo, rispetto al carico fiscale effettivo della regina di Borsa.
Dietro l’autodifesa di Cook c’è una verità  amara. Apple è solo la più ricca e la più “simbolica”, per il suo appartenere all’universo Internet che spesso si ammanta di valori illuminati. Ma il Senato Usa ha una lunga lista di reprobi da esaminare. Per restare sulla West Coast progressista, quella che stacca assegni per la filantropia e per l’ambiente, la Microsoft elude le imposte grazie a una rete di filiali da Portorico a Singapore; la Hewlett-Packard al fisco Usa non versa quasi nulla. Da Amazon a Google a Starbucks, la lista degli evasori eccellenti include l’intero Gotha del nuovo capitalismo americano. Più i fondatori sono giovani, liberal, di idee avanzate, più sembrano disinibiti nello scimmiottare le gesta dei Robber Barons, i “baroni ladri”, monopo-listi del petrolio e delle ferrovie, contro i quali scendette in guerra Ted Roosevelt all’inizio del Novecento. Da Washington ieri è partito anche un richiamo all’Europa. «Chi ve lo fa fare, di attirare le nostre multinazionali in Irlanda con questo genere di favori?», si è chiesto il senatore Levin. Buona domanda davvero.

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