by Sergio Segio | 16 Maggio 2013 7:44
Meglio ancora: una forma di catarsi, di espiazione. È un aspetto importante, che spiega la pervicacia della Germania nell’applicare e imporre al resto d’Europa ricette disastrose che prolungano la recessione. Spiega anche perché interi pezzi dell’establishment europeo siano stati soggiogati dall’austerity fino ad accettarla come verità suprema (salvo scoprire che “il re è nudo”, con la scoperta che la famosa soglia invalicabile del 90% di debito/ Pil era un errore di calcolo).
In partenza, i tedeschi furono tra i primi a mettere sotto accusa il neoliberismo, come causa della crisi del 2008. Videro in quel disastro sistemico della finanza mondiale, scatenato da Wall Street, la condanna della “economia del debito”. E avevano ragione, in quel contesto. I mutui subprime furono il fattore dirompente. Quei mutui “scadenti” (questa la traduzione più sincera) erano tali perché concessi a famiglie già troppo indebitate, o dai redditi palesemente insufficienti per ripagare le rate. Elargendo con facilità credito a tutti, Wall Street aveva inventato un by-pass finanziario per risolvere un gigantesco problema sociale: la dilatazione patologica delle diseguaglianze, l’impoverimento dei lavoratori e del ceto medio, il crollo della capacità di risparmio delle famiglie, la difficoltà di accesso alla prima casa. Il sistema poteva funzionare finché la bolla speculativa faceva lievitare il valore degli immobili: le famiglie sovraindebitate potevano sempre sperare di rivendere la casa per ripagare i debiti. I banchieri, dal canto loro, si erano apparentemente immunizzati dal rischio, frazionando e cartolarizzando i loro crediti, spalmando il rischio sui mercati e sugli investitori.
Quando il castello di carte è crollato è stato giusto puntare il dito contro “la cultura del debito facile”. Questa cultura, made in Usa, si era avvalsa dell’ideologia liberista: la convinzione cioè che i mercati stessi avevano la capacità di autoregolarsi. Uno dei massimi guru di quel pensiero unico fu Alan Greenspan, presidente della Federal Reserstiche, ve durante l’Età dell’Oro (Clinton- Bush), il quale aveva sempre snobbato gli allarmi sulle bolle speculative e debitorie, perché convinto che i mercati nel loro perfetto equilibrio erano già in grado di calcolare il rischio, di proteggersi, di ritrovare un equilibrio naturale. Dopo il 2008, è dalla Germania che sono giunte alcune delle requisitorie più spietate contro l’americanizzazione
della finanza, l’esportazione della cultura del debito facile verso paesi tanto diversi come l’Irlanda o la Spagna. A ragione la Germania di Angela Merkel stabilì nelle sue diagnosi un nesso forte tra il fenomeno sub-prime e l’altra dimensione dei debiti: la tendenza degli Stati Uniti ad accumulare deficit commerciali e passività con il resto del mondo (soprattutto le potenze esportatrici: Cina, Giappone, Germania). L’abitudine, cioè, degli Stati Uniti di “vivere al di sopra dei propri mezzi”.
Da quel momento in poi, la Germania si è convinta della propria superiorità morale, oltre che economica. La sua visione etica, sulle virtù della parsimonia, è diventata un lasciapassare per reintrodurre nel senso comune una vecchia versione del liberismo. Lo chiamano “ordo-liberalismus”, ha avuto radici profonde nel mondo germanico. Somiglia all’ideologia che professava Herbert Hoover, presidente americano nel crac del 1929. Hoover non era un mostro insensibile alle sofferenze dei disoccupati. Provò ad attivare alcune leve dello Stato per attutire i colpi della Grande Depressione. Era però fermamente convinto che l’America dovesse “purgarsi” per gli eccessi del periodo precedente (The Gilded Age, l’Età del Jazz, quella del Grande Gatsby): debiti, bolle speculative, eccesso di consumi. Una visione moralistica dell’economia, insieme con la fiducia nelle capacità autoregolatrici del mercato, conducevano a pensare che “sette anni di vacche magre” dovessero biblicamente castigare il troppo benessere dell’epoca precedente. A questo si aggiungeva una fede dalle tinte moralistiche sulle virtù del pareggio di bilancio.
Angela Merkel non è un clone di Herbert Hoover: governa un paese con un Welfare State avanzato e generoso. E tuttavia le politiche che ha imposto al resto d’Europa sono simili agli errori pre-keynesiani. Sono gli errori che ha evitato l’America di Barack Obama. La ripresa Usa
dura ormai da tre anni. Genera posti di lavoro a un ritmo medio di duecentomila nuove assunzioni al mese. Non ha curato tutti i suoi mali: resta l’eredità di diseguaglianze abnormi, un “arretrato” di disoccupati giovani e sottoqualificati, un peso della lobby di Wall Street tuttora temibile. Ma l’America dimostra che divincolarsi dal pensiero unico neoliberista – anche nelle sue varianti moralistico puritane – è il passaggio obbligato per iniziare a riparare l’enorme disastro sociale. Obama ha aggiornato la lezione di John Maynard Keynes, l’unico pensiero forte non-autoritario generato dagli anni Trenta: prima bisogna rilanciare la crescita, ad ogni costo (Il “costo” di Obama: un deficit/Pil oltre il 10% durante il periodo più buio della recessione, 2009/2010). Quando l’economia torna a generare lavoro, il risanamento dei conti pubblici è più facile: lo dimostra il calo del debito pubblico Usa, in atto per la prima volta dal 2007, trainato dall’aumento del gettito fiscale. Lo Stato è anche, nella dottrina Obama, il catalizzatore di una nuova stagione di innovazioni: dalla Green Economy alla rifondazione dei nostri sistemi educativi.
Il modello California, il più grosso degli Stati Usa ad avere raggiunto il pareggio di bilancio aumentando le tasse sui ricchi, dimostra questo anti-dogma, l’antidoto al neoliberismo: lo sviluppo riparte solo se il potere d’acquisto viene diffuso nei ceti più numerosi, classi lavoratrici e ceto medio, la cui sofferenza è la prova di un fallimento storico delle politiche gemelle. Austerity e neoliberismo affondano abbracciate insieme.
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