by Sergio Segio | 27 Maggio 2013 5:59
U na finestra è un punto di osservazione da cui guardare il mondo esterno, che fluisce sbadato e insondabile, ed è insieme uno squarcio attraverso il quale spiare la vita, sempre misteriosa e inafferrabile, che scorre e si consuma in stanze sconosciute, ma è anche uno specchio in cui il flà¢neur, l’uomo che vagabonda per la strada cercando di cogliere il segreto e l’essenza di una città , scorge insieme l’interno di una casa e il riflesso del suo volto, scopre se stesso immerso nel fluire delle cose e indistinguibile, nel suo essere più profondo e ignoto, da esse.
Così accade ad Antonio Muà±oz Molina, famoso scrittore che camminando per New York diviene un passante anonimo e sconosciuto non solo agli altri ma pure a se stesso, in quel vero capolavoro che è il suo libro Finestre di Manhattan, uscito alcuni anni fa e splendidamente tradotto da Maria Nicola.
Pochi libri dimostrano con altrettanta forza poetica la verità di quella parabola di Borges che narra di un pittore, il quale dipinge paesaggi — alberi, città , montagne, fiumi — e alla fine si accorge di aver dipinto il proprio autoritratto, non perché abbia alterato soggettivamente la realtà , ma perché la sua identità — come quella di ognuno di noi — consiste nel modo in cui vede, sente, coglie, ama o respinge il mondo, le persone e le cose. Finestre di Manhattan è un viaggio — svagato e accanitamente preciso — nell’omonima città , letta anche attraverso la vastissima arte e letteratura nate da essa e che insieme la fanno scoprire e la coprono, ma soprattutto attraverso la casualità del vagabondare, gli odori e i rumori effimeri e intensi come ferite, i volti emersi e subito riaffondati, le storie ripescate dal passato o di bruciante istantaneità .
Scrivere su New York, tante volte narrata da grandi penne, è una difficile sfida, che Muà±oz Molina ha raccolto con possente originalità e freschissima semplicità . Vaga per Manhattan come gli Ulissi moderni che hanno scelto la città quale selva oscura e anche come Don Chisciotte e Sancho si muovono fra le meraviglie fatate e le miserie della Mancha.
C’è tutta una grande letteratura dedicata al flà¢neur che scopre la città immergendosi in essa; basta pensare a Benjamin, maestro della lettura delle città decifrate come si raschiano e decifrano graffiti incisi sui muri e incrostati dal tempo, distruttore ma anche grande scultore, diceva Marguerite Yourcenar. Ma Antonio Muà±oz Molina forse va oltre lo stesso Benjamin, per la semplicità — umile e insieme ferma — con cui coglie la vita, la cronaca e la storia, scrostandole di quel pathos allegorico che nel grande Benjamin si pone sulle cose come una patina.
Muà±oz Molina riesce ad esprimere una sensibilità , un’intelligenza, un’etica inconfutabilmente e irrepetibilmente personali e insieme a far parlare, senza pathos e senza ripitturazioni, la verità delle cose.
Pure nei suoi numerosi romanzi è assai presente il paesaggio cittadino, affascinante o sordidamente opaco come la Madrid del Beltenebroso, del Custode del segreto o dei Misteri di Madrid, per citare solo alcune opere, in cui l’odissea romanzesca s’intreccia spesso a una trama da romanzo noir, alla traccia di un delitto scoperto talora negli occhi dell’assassino, a uno spietato gioco di spie collegato talora a un’esistenza sotterranea, eroica ed ambigua, al regime franchista.
Spiare — la sua infamia, la sua fascinazione, il suo garbuglio che si aggroviglia su se stesso — è una delle ossessioni poetiche di Muà±oz Molina; basti pensare a un altro suo capolavoro, Sefarad, stupenda galleria di vittime dei totalitarismi del Novecento e della loro macchina di tradimento, spionaggio, delazione.
Anche dalle e attraverso le finestre di Manhattan si spia la vita, ma in questo caso con un asciutto e intenso amore e con una partecipazione umana rara nella letteratura, i cui rappresentanti anche grandi hanno spesso — osserva Milosz, grande poeta — un cuore freddo.
Scrittore colto e raffinato, di casa nei più vari Paesi, Muà±oz Molina riesce, con naturalezza, a guardare le cose «con gli occhi ansiosi della prima volta», con quella verginità non certo ingenua né inesperta invocata da Stevenson, dal lieve sgomento provato ogni volta all’arrivo all’aeroporto, tra quella folla e quella umanità ammassata per i controlli in una Valle di Giosafat, al vago timore che desta per un momento ogni impatto con l’America, con i formulari da riempire e con i modi della polizia.
Coltissimo conoscitore e interprete dei più grandi pittori, fotografi ed artisti, calamitati nella metropoli, ognuno dei quali è un vero Virgilio che accompagna il dantesco pellegrino nella selva oscura e insieme ariosa della città , Muà±oz Molina si affida soprattutto ai sensi, alla loro immediata verità che coglie la gioia e la pena di vivere, la carnale fioritura e decomposizione della vita. Si affida alla vista, all’udito, ma ancor di più ai sapori, in cui ci si riconosce in profondità , e all’odorato, sensi bassi nella tradizione occidentale perché vicini all’imbarazzante promiscuità della vita, alla terrigna umiltà — humus, terra — del corpo, del suo incanto e della sua sgradevolezza.
La sua Manhattan è totale, abbraccia i capolavori dell’arte e l’impero sradicante del danaro, che sgorga dappertutto e sparisce altrettanto rapidamente, come lo scarico — egli scrive — che risucchia l’acqua nel gabinetto di un aereo; guarda le luci della notte che fanno assomigliare la città alla Via Lattea e l’incanto della natura; l’alternarsi senza tregua di costruzione e demolizione, il passaggio repentino dalla bellezza alla desolazione; le figure più diverse e più diversamente seducenti del jazz e delle sue opposte star quali Dee Dee Bridgewater e Paula West. Si sofferma sulle zone d’ombra, sul volto e sul fetore dei barboni alcolizzati, sul vento e la neve che fanno mulinello di stracci e rifiuti; entra nei musei, in cui si conservano valigie di morti dimenticati e un gabinetto del 1930, «un cubicolo con una tazza chiazzata in modo indelebile dalle feci e dall’orina delle generazioni di poveri che lo condivisero».
La sua penna annota la realtà come una matita che tracci un disegno e fa vivere o rivivere volti indimenticabili — di vincitori e di vinti, di assassini e di miserabili, di bambini e di magnati. La traversata di Manhattan, egli scrive, è «una sezione geologica» che attraversa mondi successivi di una varietà vertiginosa.
Tutto ciò, forse, va accentuandosi sempre più; poche settimane fa, a Chinatown, ho avuto l’impressione di trovarmi non in un quartiere cinese, come le altre volte, ma in Cina. Il grande bazar del mondo, come Muà±oz Molina definisce Manhattan, è divenuto il mondo, anche se, egli scrive, la città sta avviandosi a diventare, come è divenuto con Venezia, da capitale a museo del mondo, da capitale della Storia a capitale del turismo storico.
Gli odori — raffinati, eccitanti, nauseanti, grevi — gli portano storie e destini, l’anima della città . Altrettanto intenso è il tesoro di vita che raccoglie l’udito: la grande, sotterranea sinfonia dei rumori di Manhattan, i concerti improvvisati agli angoli delle strade, straordinari musicisti come — in una pagina mirabile — quel nero seduto su una cassa di birra vuota all’uscita della metropolitana nei pressi di Times Square, che trae una musica coerente e misteriosa, barocca e tropicale, dalla percussione di una molteplicità di oggetti disposti intorno a sé, un cestino di fil di ferro, un carrello del supermercato, una piccola bombola di gas, un secchio di zinco, un tubo di piombo, una fila di bottiglie di diversa altezza e altre cose ancora, una vera orchestra che crea una cascata di ritmi diversi e organicamente fusi.
C’è una grande poesia degli oggetti, in questo libro, un’epifania di oggetti grezzi e comuni regalati dal caso, dell’umile e fragile materia destinata alla consunzione ma che pur sopravvive agli uomini, come nel museo la macchina da scrivere di Ethel Rosenberg sopravvive a quest’ultima condannata alla sedia elettrica per le informazioni che improbabilmente avrebbe battuto su quei tasti.
C’è nella città una furia del raccogliere, dagli stracci e dalla spazzatura conservati dai barboni al collezionismo dei miliardari agli artisti che, come Manolo Valdés, raccolgono pezzi di latta o una demolita scala antincendio che diviene, in una scultura, l’acconciatura di una grande testa di bronzo. Pure Picasso, si dice, andava in giro a raccogliere viti e grovigli di filo di ferro; l’interesse di Muà±oz Molina non va solo a ciò che quei rottami divengono nell’uso che ne fa l’arte ma, ancora di più, ai rottami stessi, al loro muto mistero.
La pietas è una chiave fondamentale della scrittura di Muà±oz Molina: pietas per il mondo spaventoso e violento in cui tutti viviamo e alcuni spaventosamente peggio degli altri; per l’innominabile dolore in cui si consumano tante esistenze, per gli altri e per se stesso, quando pensa al tempo in cui, di lui, rimarrà solo qualche foto elusiva.
Ma questa pietas non appanna, bensì rende più intense la tenerezza per la vita, propria e altrui, la sensualità , l’amore per quella città , luogo di tutti gli esili, di tutte le demolizioni, tutte le creazioni più avventurose. La realtà di quella città brulicante e solitaria, grandiosa e desolata viene scoperta e vissuta anche come una canzone — una di quelle canzoni che accompagnano la vita di ciascuno divenendo un tutt’uno con essa, una di quelle canzoni che — egli scrive — non parlano di chi le ha scritte ma di chi le ha ascoltate e ricantate o ricanticchiate.
Leggendo Finestre di Manhattan, chi ha passato la propria esistenza troppo sui libri e troppo poco nelle canzoni prova una punta di malinconia. Il grande scrittore, diceva Schopenhauer, si fa ventriloquo delle voci e delle vite altrui. Antonio Muà±oz Molina si è fatto ventriloquo di Manhattan e delle sue innumerevoli voci e vite, divenendo loro specchio e facendo pure di esse uno specchio della propria persona e del proprio destino.
La verità , diceva Mark Twain, è più bizzarra della finzione; queste storie vere colte a volo o ritrovate scrostando la ruggine del tempo, questi volti, questi colori, questi odori sono più originali e sorprendenti di un’invenzione romanzesca ma sono anche romanzo.
Un romanzo epico e corale di una città che si trasforma più velocemente dell’occhio che la guarda; un romanzo degli incanti, degli orrori e delle metamorfosi del nostro mondo e un riservato romanzo autobiografico dell’autore, dei suoi sentimenti e della sua appena accennata ma intensa, definitiva storia d’amore, che attraversa i suoi vagabondaggi come egli attraversa il tempo e lo spazio di Manhattan, teatro del mondo.
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