Oltre mille morti e 1 milione di «no» per il Rana Plaza

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Ma superata quota mille morti, la speranza che altre Reshma possano uscire dalle macerie del palazzone alla periferia della capitale del Bangladesh sono tanto remote quanto è invece possibile che la conta dei cadaveri aumenti ancora decisamente.
Nessuno sa quante persone sono rimaste sepolte nel crollo, ma ogni giorno il loro numero cresce. Dall’implosione del Rana Plaza si salvarono in 2500 e un migliaio di persone se la cavò con delle ferite. Ma adesso si avvicina il momento del bilancio finale, sempre che si riesca a passare al setaccio tutte le tonnellate di macerie prodotte dal crollo.
Quel crollo ha prodotto almeno un risultato: un milione di firme in calce alle petizioni che chiedono ai marchi che si riforniscono in Bangladesh di sottoscrivere immediatamente il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un accordo che vincola al controllo della sicurezza nelle aree del lavoro tessile, una moderna forma di schiavitù più volte venuta alla luce ma mai in maniera così eclatante.
A renderlo noto è la Campagna italiana “Abiti puliti”, quella che ha denunciato, tra l’altro, il coinvolgimento di molti clienti italiani e sbugiardato la firma più importante: il colosso multinazionale Benetton. L’accordo messo a punto insieme ai sindacati internazionali – spiegano alla Campagna – pone le basi strutturali per evitare la perdita di altre vite. Firmarlo entro il 15 maggio, aggiungono gli attivisti di “Abiti puliti”, è questione di «vita o di morte». Troppo vero.
L’Italia però sembra molto in ritardo. A parte qualche piccola manifestazione a Padova e qualche sdegnato commento sui giornali, l’opinione pubblica e i grandi marchi sono rimasti silenti. Anche il governo si è speso poco. Lo stesso i sindacati. Sembra non contar molto che in quella vicenda siamo coinvolti e che dal 2005 a oggi più di 1700 lavoratori tessili sono morti in quel paese a causa della scarsa sicurezza degli edifici.
La firma di quell’accordo sarebbe una buona scelta: prevede ispezioni indipendenti nelle fabbriche, formazione dei lavoratori sui loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza. Non c’è altro tempo da perdere.


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