Olanda e Irlanda, il nuovo Eldorado così l’Europa è diventata off-shore

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Tanto che gli hanno regalato il nome (a dire il vero un po’ da cocktail) di “Double Irish and Dutch sandwich”, censito alla luce del sole persino su Wikipedia. Apple — come Google e tanti altri mostri sacri dell’hi-tech — non ha fatto altro che applicarlo alla lettera. Ha aperto una controllata a Dublino cui girare i suoi diritti per le vendite all’estero dove ha parcheggiato gli utili fatti fuori dagli Usa. E attraverso una complessa triangolazione con Amsterdam e il Lussemburgo — sfruttando le agevolazioni fiscali di questi paesi — li ha rese quasi esentasse.
Tutto regolare? Norme alla mano sì. “L’ottimizzazione fiscale”, come la chiamano i protagonisti del settore, è una branca della scienza finanziaria che dà  lavoro — come ha detto il premier britannico David Cameron — «a una carovana itinerante di legali, contabili e simil-guru finanziari » impegnati a spostare miliardi come trottole per risparmiare qualche punto percentuale di aliquota. In Irlanda la “Tasse spa” ha creato 153mila posti di lavoro. In Olanda esistono 23mila aziende fantasma domiciliate presso caselle postali che incassano le royalties di Apple ma anche quelle, per dire, di U2 e Rolling Stones. In Lussemburgo arriva ogni anno un fiume di denaro a fini elusivi (3mila miliardi) pari a 22 il pil del paese. Tutto registrato, tutto legale. Tanto che sia Amsterdam che Dublino hanno rivendicato ieri con orgoglio la propria trasparenza erariale: «Non è evasione fiscale, è il capitalismo — ha detto Eric Schmidt, numero uno di Google — e noi siamo orgogliosamente capitalisti ». Una comprensibile difesa d’ufficio visto che il motore di ricerca ha appena trasferito grazie al Double Irish e al Dutch Sandwich ben 8 miliardi esentasse alle Bermuda.
Nel cuore dell’Europa, insomma, si è aperta una falla gigantesca. Che costa tra l’altro miliardi ai conti pubblici di Paesi (Italia compresa) che di quei soldi avrebbero bisogno come il pane per far quadrare i propri bilanci. «La politica deve dettare le regole per fermare questa evasione legalizzata », ha chiesto Gurria. E già  oggi Bruxelles cercherà  di metterci una pezza, varando la sua strategia a 360°. «Entro il 2015 avvieremo il libero scambio di informazioni sui conti correnti tra i paesi membri», ha promesso il Presidente della Commissione Jose Manuel Barroso. San Marino e Lussemburgo hanno già  detto sì. Lo stesso dovrebbe fare la Svizzera. Ma si tratta solo del primo passo, buono soprattutto per stanare i singoli evasori come gli italiani che — secondo le stime — hanno nascosto 125 miliardi al riparo dei conti segreti elvetici.
La battaglia contro Apple & C. richiede un salto di qualità  più sofisticato. Necessario per adeguare le normative fiscali a quell’era internet che ha dematerializzato tutte transazioni (ogni volta che compriamo qualcosa su I-Tunes, per dire, giriamo i nostri soldi a un’azienda in Lussemburgo). Il cardine sarà  una nuova legislazione sulle royalties, il buco nero che fino ad oggi ha consentito a molti big tecnologici Usa di parcheggiare qualcosa come 1.800 miliardi di dollari di utile all’estero. E questo passo sarà  un po’ più complicato visto che le triangolazioni garantiscono alla sola Olanda, per fare un esempio, investimenti esteri per 3.500 miliardi l’anno. Non solo: se l’Europa riuscirà  a tappare le sue falle, per la legge dei vasi comunicanti ci saranno altri stati pronti a garantire nel nome della competitività  fiscale le stesse condizioni proposte oggi da Dublino e Amsterdam. Singapore è già  in agguato e ha intercettato molti dei conti custoditi fino ad oggi sotto l’ombrello della riservatezza rossocrociata. E se anche le Cayman alzeranno bandiera bianca, è sicuro che qualcun altro in giro per il pianeta raccoglierà  il testimone del grande risiko dell’elusione erariale.
La strada per l’Unione fiscale europea, insomma, rischia di essere quasi più accidentata di quella che porta verso l’unione politica. I colossi a stelle e strisce, comunque, non vogliono farsi trovare impreparati. E hanno già  avviato il pressing sulla Casa Bianca per varare un “maxi-scudo fiscale” che consenta loro di rimpatriare negli Usa il loro “tesoretto” estero. Si tratta sul prezzo, ma la Corporate America, che in questi anni di Cuccagna si è abituata male, è pronta a pentirsi solo se le sarà  garantita un’aliquota low-cost del 5,75%. Al lavoro a Washington, profumatamente pagati, ci sono già  160 lobbisti.


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