Napolitano: basta con le ingiurie
ROMA — Un relitto dell’assolutismo monarchico, come l’aveva imposto Luigi XIV. Un residuo del regime fascista sopravvissuto chissà come nelle pieghe dei nostri codici repubblicani. Una camicia di forza per comprimere il libero esercizio del diritto di opinione.
È davvero possibile riassumere così, come ha fatto Beppe Grillo, il reato di «vilipendio» per il quale la procura di Nocera Inferiore ha messo sotto inchiesta 22 persone intervenute con pesantissimi commenti contro l’inquilino del Quirinale sul blog del Movimento 5 Stelle? Quanto c’entra Napolitano con quei provvedimenti giudiziari? L’iniziativa «intimidatoria» dei magistrati dipende forse da lui? E non potrebbe essere proprio lui a fermarla, spiegando di non sentirsi «vilipeso»?
Come spesso succede quando si affronta la questione delle prerogative del presidente della Repubblica, molti rischiano d’incespicare in sviste ed equivoci, lanciandosi in congetture e conclusioni fuorvianti. Un pericolo inevitabile, dato che quel perimetro di poteri riassume funzioni «altissime e vaghissime, imprecisate e imprecisabili», dunque complesse da decifrare per i non addetti ai lavori.
Ieri, però, Giorgio Napolitano ha deciso che ne aveva abbastanza, di questa eterna querelle sulle conseguenze nelle quali possono incorrere coloro che recano offesa al capo dello Stato. E ha reagito con una nota ufficiosa, in cui cita una sua vecchia, e già allora irritata, puntualizzazione di quattro anni fa. Quando cioè pose il «problema reale, di costume politico e di garanzia democratica, della capacità di distinguere tra “la libertà di critica e ciò che non lo è nei confronti di istituzioni che dovrebbero essere tenute fuori dalla mischia politica e mediatica”, specialmente quando si scada in grossolane, ingiuriose falsificazioni dei fatti e delle opinioni».
Non si è però limitato a quel richiamo, Napolitano. Ha voluto spiegare anche che «la contestazione di eventuali ipotesi di reato avviene del tutto indipendentemente da ogni intervento» del presidente. Che «non è chiamato a dare alcun parere né tantomeno autorizzazione all’autorità giudiziaria che ritenga di assumere iniziative ai sensi dell’articolo 278 del codice penale», quello sul vilipendio.
È un punto fondamentale, questo, perché sgombra un equivoco di fondo. In passato, infatti, quando le procure aprivano un’inchiesta per vilipendio al capo dello Stato (sulla base di una notitia criminis o su denuncia di un cittadino), il Quirinale doveva effettivamente dare una sorta di «autorizzazione a procedere». In effetti, più o meno come avrebbe fatto un sovrano che si fosse ritenuto offeso per lesa maestà (e i sovrani, per inciso, erano sul serio circondati da un alone di sacralità ). Fu Scalfaro, poi, a far cancellare questa prassi, per cui oggi i magistrati si limitano a dare una «doverosa» comunicazione della loro iniziativa. E, paradossalmente, se il presidente intervenisse, magari per pregare le toghe di soprassedere e di non procedere, questa sarebbe un’interferenza.
Di più, nell’archivio storico del Colle non c’è traccia di atti d’impulso (neppure sotto forma di lettere riservate) dei capi dello Stato per far perseguire qualcuno per quest’ipotesi di reato. Del resto, sarebbe incomprensibile il caso contrario: nessuno può disporre in via personale di un simile tipo di tutela o addirittura stabilirne il regime sanzionatorio. Per cui, insiste Napolitano, rievocando ancora una volta se stesso, «spetta a chi ha il potere d’iniziativa legislativa, e non al capo dello Stato, proporre l’abrogazione di quella disposizione del Codice. E, per una decisione su proposte del genere, è sovrano il Parlamento».
Chiarito quel che gli premeva chiarire, anche tecnicamente, della puntualizzazione presidenziale resta soprattutto il richiamo a non trascinare nell’attuale crisi di sistema le istituzioni e le autorità di garanzia. Verso le quali «occorre il necessario rispetto». Questa è, d’altro canto, la ratio ispiratrice dell’articolo 278 (e degli altri correlati su bandiera, forze armate, etc.) contestato da chi teme le conseguenze giudiziarie di una lotta politica ormai troppo spesso brada e irresponsabile. Senza alcun limite di buon gusto o remora di mistificazione costituzionale.
Insomma, altro che entità residuale di un passato remoto e da archiviare. Anche per una cosa apparentemente marginale come questa, ma in particolare per la fragilità della nuova alleanza di governo, l’Italia è oggi per Napolitano «sul filo del rasoio».
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