L’ora della resa dei conti fra le due anime dell’Islam

by Sergio Segio | 20 Maggio 2013 8:58

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TUNISI — Gli scontri fra la polizia e i salafiti a Tunisi e a Kairouan dimostrano che anche in Tunisia, come in Egitto, l’Islam è diviso fra due tendenze: un partito dalla Fratellanza musulmana, Ennahda, e alcuni movimenti radicali fra cui il maggiore è Ansar Al Sharia (partigiani della legge coranica). A prima vista la distinzione è netta. Ennahda si professa democratico, vuole tranquillizzare i laici, governare il Paese, allargare l’area del proprio consenso, ed è stato probabilmente influenzato dall’Akp, il partito turco di Recep Tayyip Erdogan che molti hanno definito, forse troppo generosamente, una «democrazia cristiana islamica». I salafiti di Ansar Al Sharia, invece, formano un gruppo integralista che non nasconde le sue simpatie per Al Qaeda e predica un Islam totalitario, fondato su una lettura miope e angusta del Corano. Uno dei suoi maggiori esponenti è Abou Iyad, oggi alla macchia, ma protagonista di uno scontro con le forze dell’ordine nella moschea di Al Fath e sospettato di un attacco all’ambasciata degli Stati Uniti, nel settembre 2012, in cui morirono quattro persone. Comunica con video diffusi sulla rete e il 12 maggio ha lanciato una sorta di dichiarazione di guerra contro Ennahda e il governo di coalizione mentre in quelle stesse ore un gruppo del movimento annunciava dalla piccola città  di Menzel Bourghiba, a sud di Biserta, che avrebbe piantato la bandiera nera della Salafia al posto della bandiera nazionale sulla facciata del ministero degli Interni. Sono salafiti di Ansar Al Sharia, verosimilmente, i guerriglieri (una ventina) che l’esercito ha stanato dalle grotte dove si erano installati nella zona di Jebel Chambi, lungo la frontiera meridionale con l’Algeria.
Ho chiesto a Soufiane Ben Fahrat, commentatore della televisione e de La Presse, quanti siano i salafiti tunisini. Ha azzardato una cifra approssimativa, diecimila, di cui almeno tremila molto attivi nell’organizzazione e mille veterani di tutte le guerre arabe e musulmane combattute negli ultimi trent’anni, da quella afghana contro i sovietici a quelle più recenti in Libia, Mali, Siria, Somalia, Nigeria. La crisi libica e, più recentemente, quella siriana hanno reso la transizione tunisina ancora più drammaticamente complicata. Nel Paese vi sono molti esuli libici, compromessi con il regime di Gheddafi, ma anche una parte considerevole dell’arsenale con cui le potenze occidentali e qualche Paese del Golfo hanno armato gli insorti di Bengasi e i ribelli di Tripoli.
Non è tutto. Oltre a disporre di armi, i salafiti si sono serviti di alcune moschee per farne altrettanti uffici di reclutamento per la guerra siriana. Hanno mandato al fronte parecchi giovani combattenti, ma anche alcune ragazze sui quindici anni nell’ambito di una operazione che è stata definita «jihad del sesso» o «jihad del matrimonio». Le ragazze non combattono, ma forniscono ai guerrieri il conforto di un sesso benedetto dalla fede. Nel corso di una conferenza stampa, all’inizio di aprile, il fenomeno è stato denunciato con molta fermezza dalla maggiore autorità  di Tunisia in materia di diritto coranico. Il Gran Mufti Othman Battikh ha detto che i salafiti stanno corrompendo la gioventù tunisina, che la jihad del sesso è soltanto prostituzione e che «chiunque metta fine alla propria vita non può essere un martire».
Gli ho fatto visita in un vicolo della vecchia Casbah, a pochi passi dalla piazza dove sorge il palazzo del governo. Sapevo che un imam radicale, qualche giorno prima, lo aveva duramente criticato per le sue affermazioni e non sono stato sorpreso quando, rispondendo a una mia domanda, ha anzitutto distinto i salafiti innocui, devoti e impegnati nella quotidiana lettura dei detti del Profeta (con i quali è sempre possibile dialogare) da quelli di cui aveva parlato nella sua conferenza stampa. Ma le sue parole degli inizi d’aprile erano già  servite nel frattempo ad allertare le famiglie, oggi forse più attente a evitare che ragazzi e ragazze si lascino tentare dal fascino della jihad. Un giornalista tunisino, qualche tempo fa, ha visitato Damasco e il regime di Bashar Al Assad gli ha mostrato un gruppo di giovani connazionali arrestati dopo il loro ingresso clandestino nel Paese e rinchiusi nelle carceri siriane. I suoi articoli, dopo il ritorno in patria, hanno avuto lo stesso effetto.
Non esistono soltanto i salafiti reclutati per la guerra siriana. Esistono anche quelli che pretendono di modificare i costumi laici delle università  tunisine. Un docente della Università  di Manouba mi ha raccontato che un gruppo composto da ragazzi e ragazze ha fatto irruzione nella facoltà  di lettere. I ragazzi avevano folte barbe, vestivano camicioni sgualciti e calzoni lunghi sino al polpaccio (per facilitare le abluzioni rituali), mentre le ragazze erano coperte dal niqab, un velo integrale che lascia agli occhi soltanto una sottile feritoia. I loro portavoce pretendevano che le ragazze fossero autorizzate a portar il velo durante le lezioni e gli esami. Il consiglio accademico ha respinto la richiesta («non si può insegnare a un muro») e le ragazze, assatanate, hanno buttato all’aria l’ufficio del preside che è riuscito a spingerle fuori della stanza, ma a prezzo di una denuncia per aggressione con certificati medici scritti da medici compiacenti in cui si leggeva che sulle guance delle giovani donne vi erano «tracce di schiaffi». Il pover’uomo ha dovuto attendere un anno prima di essere assolto da qualsiasi imputazione. Lo hanno aiutato gli interventi di molti professori di università  europee, soprattutto francesi, mentre il ministro tunisino della Istruzione superiore, chiamato in causa dall’università  di Manouba, si limitava a raccomandare il dialogo e la comprensione. Alcuni dei laici incontrati a Tunisi sono convinti che Ennahda indossi la maschera della tolleranza quando parla al mondo, ma conservi stretti legami di affinità  con l’Islam radicale in cui ha le sue vecchie radici.
A me sembra piuttosto che il partito provi di fronte a questi «ragazzacci» lo stesso imbarazzo dei comunisti italiani quando scoprivano che molti terroristi degli anni Settanta appartenevano al loro «album di famiglia». Ameur Larayedh, fratello del primo ministro, e Osama Al Sarigh, deputato della Costituente eletto dai tunisini residenti in Italia, mi hanno detto che il loro partito non intende tollerare alcuna forma di violenza e che ogni illegalità  sarà  affrontata con il rigore della legge. Ma il nodo dei legami che ancora uniscono il maggiore partito tunisino al suo retroterra islamico radicale non è di quelli che si possono sciogliere garbatamente o con affermazioni di principio. Per essere totalmente credibile Ennahda dovrà  tagliarlo.
(1-continua)

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