Linee rosse in Siria, fiamme nella regione

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La decisione di Israele di colpire militarmente il Paese confinante, con almeno due bombardamenti chirurgici, contro trasporti di armamento sensibile verso il Libano, e centrando una base militare che è anche deposito di missili probabilmente destinati al movimento filo-iraniano Hezbollah, rappresenta una svolta.
È infatti la prima volta che lo Stato ebraico colpisce un Paese sconvolto dalla degenerazione della «primavera araba», turbolenta stagione dalla quale Israele si era sempre tenuto lontano. Ed è la prima volta da anni che la Siria si rivolge al governo di Gerusalemme accusandolo apertamente di aver dichiarato la guerra, come ha detto alla Cnn il viceministro degli Esteri siriano Faisal al Mekdad, sostenendo che si sta realizzando l’alleanza tra terroristi islamici e Stato ebraico.
Lo schieramento delle batterie missilistiche in Siria e quelle anti-missili in Israele, la chiusura ai voli civili dello spazio aereo sull’intero Nord dello Stato ebraico sono misure prevedibili. Come era ovvio attendersi la reazione di Teheran, furente per il raid israeliano nel cuore del Paese alleato. Tuttavia, ci sono altri risvolti e sviluppi che suggeriscono qualche riflessione.
La Siria è precipitata in una guerra civile, apparentemente senza vie d’uscita, con il rischio di una possibile e pericolosa disgregazione dello Stato. Il paradosso è che l’attacco israeliano ha riunito ieri quello che sembrava più diviso che mai: cioè la compatta condanna del mondo sunnita, riassunto dalla Lega araba, per un attacco definito «intollerabile» contro Damasco. Fino a poche ore prima, i leader e le cancellerie arabe (Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Qatar) e non arabe (Turchia) avevano espresso convinto sostegno al variegato fronte delle opposizioni anti-Assad. Adesso, magari a denti stretti, non possono evitare passi non sgraditi al regime di Damasco.
Nei giorni scorsi era stata denunciata la certezza che in Siria erano state usate armi chimiche. Per gli Stati Uniti quell’utilizzo era «la linea rossa», superata la quale ci sarebbero state gravissime conseguenze. Però Washington ha ammesso di non avere prove certe sull’identità  di chi quelle armi ha usato: se il regime o l’opposizione.
Ma anche per Israele ci sono linee che non si possono superare. Il premier Netaniahu — glielo ha riconosciuto anche Barack Obama — ha tutto il diritto di proteggersi e di evitare che i missili siro-iraniani finiscano all’Hezbollah, che così, dal Libano, potrebbe colpire le città  israeliane.
Una «linea rossa» l’ha tracciata anche la parte meno estremista del fronte dell’opposizione siriana, che non può certo permettersi di essere d’accordo con un attacco israeliano sul proprio territorio. Ecco perché quella che più volte è stata definita la sporca guerra per procura, può aggravarsi e provocare altre tragedie. Vi sono anche contorni imbarazzanti. Il presidente degli Stati Uniti, nel suo recente viaggio in Medio Oriente, aveva speso il suo prestigio per riportare israeliani e palestinesi attorno a un tavolo negoziale, ridando fiato alla soluzione dei due Stati.
Pensare adesso alla ripresa delle trattative pare illusorio. Ma nel Medio Oriente non si sa mai. Il premier Netaniahu, nonostante la grave crisi, ha deciso di partire comunque per una visita ufficiale in Cina (membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu), che assieme alla Russia si è sempre opposta a misure drastiche contro Damasco. Ma in Cina si trova in visita, in queste ore, anche il presidente dell’Autorità  palestinese Abu Mazen. Uno ripartirà  all’arrivo dell’altro, però Pechino, neo superpotenza economica che aspira a un grande ruolo politico, dispone di argomenti indubbiamente intriganti.


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