Le «spie» di Bloomberg Nel mirino Bernanke e i giganti di Wall Street

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NEW YORK — I giornalisti di Bloomberg avevano accesso a notizie riservate che transitavano sui terminali di informazioni di mercato che l’azienda dà  in leasing a oltre 300 mila clienti nel mondo della finanza. «Ma grandi scoop quei reporter non ne hanno fatti. Allora le cose sono due: o non sapevano usare bene le informazioni, oppure era roba che valeva poco». Il commento sul «Bloombergate» messo su Twitter da Kevin Rioose, cronista finanziario di punta di New York Magazine, illumina bene il caso esploso tre giorni fa, quando il New York Post ha raccontato per primo delle proteste della Goldman Sachs coi capi di Bloomberg per le intrusioni dei giornalisti dell’agenzia nel suo sistema informativo finanziario.
Da quel momento la società  sulla quale il sindaco di New York ha costruito la sua fortuna (oggi ammonta a 27 miliardi di dollari) è finita in mezzo a una tempesta che mette in pericolo il business sul quale è stata costruita e sul quale prospera da 30 anni. È venuto fuori che diverse centinaia dei 2400 giornalisti del gruppo avevano (fin dal 1982) accesso ai terminali finanziari e che qualcuno si era perfino divertito ad andare a leggere le imbarazzate conversazioni dell’ex capo della Federal Reserve, Alan Greenspan, e di quello attuale, Ben Bernanke, nonché dell’ex ministro del Tesoro, Tim Geithner, col «customer service», quando non riuscivano a far funzionare bene il sistema informatico.
In poche ore il caso è diventato tempesta, con la Fed e il Tesoro che ora indagano per capire se i giornalisti di Bloomberg spiavano, occasionalmente o sistematicamente, i loro dipendenti. La società  è corsa subito ai ripari: ha comunicato che la funzione di accesso dei suoi giornalisti è stata disattivata da quando, mesi fa, è arrivata la protesta della Goldman. E l’amministratore delegato Daniel Doctoroff ha definito quella funzione, ora eliminata, «un errore». Goldman era andata su tutte le furie quando l’uscita di scena di un partner, non annunciata, era stata scoperta da un cronista che si era accorto che quella persona non faceva «log in» nel sistema da molti giorni.
Sul caso sono subito saltati molti media: dalla rete televisiva finanziaria Cnbc all’agenzia Reuters. Un caso clamoroso ma non paragonale allo scandalo delle intercettazioni illegali dei tabloid inglesi di Murdoch: Bloomberg non ha fatto nulla di illegale, l’accesso dei giornalisti ai dati era noto a molti e le informazioni accessibili erano significative ma non dettagliate. Il giornalista poteva sapere chi era collegato e quali mercati stava esaminando, ma non di quale titolo si stava occupando specificamente. Né sono state intercettate comunicazioni riservate.
Il clamore è alimentato anche da un po’ di «cannibalismo» dei media: ad attaccare sono soprattutto testate che competono con Bloomberg nell’offerta di servizi finanziari (Thomson Reuters) e nelle tv per il mondo degli affari (Cnbc, concorrente di Bloomberg Tv) mentre il New York Post appartiene a Murdoch che è anche padrone dell’agenzia Dow Jones, concorrente di Bloomberg News.
Ma, anche se le informazioni a cui avevano accesso i giornalisti non erano molto significative e se grandi scoop Bloomberg non ne ha fatti, il caso è grave perché tocca un campo delicatissimo come quello della trasparenza e dell’accesso paritario all’informazione finanziaria: un nervo scoperto dell’America della lotta a oltranza all’«insider trading». Ora Bloomberg, che ricava gran parte del suo fatturato (6,3 miliardi di dollari su 7,9) dall’affitto dei terminali ai clienti finanziari (315 mila che pagano 20 mila dollari per ogni abbonamento), trema all’idea che molti clienti, preoccupati per la vulnerabilità  del sistema, possano disdire i loro contratti.
Tremano e si mangiano le mani perché un avvertimento lo avevano avuto già  un anno fa quando i giornalisti di Bloomberg avevano identificato dai dati sull’uso del sistema che la JP Morgan, che aveva scoperto perdite miliardarie per speculazioni sbagliate della filiale inglese, aveva cacciato un «trader», Bruno Iksil, responsabile dell’accaduto. Allora i capi della banca americana si arrabbiarono molto, ma non misero alle strette la Bloomberg. E tutto continuò come prima.


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