by Sergio Segio | 28 Maggio 2013 7:16
Stracci d’Italia, verdi bianchi e rossi, che pendono lungo un muro: l’opera di Pistoletto figura molto bene quale copertina del libro di Guido Crainz Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi (Donzelli, pp. 403, euro 29). È la conclusione della trilogia partita nel 1996 con la Storia del miracolo economico e proseguita nel 2003 con Il paese mancato, che nell’insieme costituisce il profilo più ampio della storia repubblicana dagli anni Cinquanta ad oggi.
Il senso del passaggio è chiaro: alla fine delle illusioni e delle ambizioni di cambiamento, mancato ogni progetto di governare lo sviluppo con regole nuove e condivise, il paese – appunto – reale emerge con le connotazioni assunte nella fase tumultuosa della sua grande trasformazione, che sono molto diverse da quelle immaginate o sperate.
Qui si ritorna leggermente indietro rispetto al volume precedente, alla fine degli anni Settanta, e si procede fino alla fine (in realtà apparente) del berlusconismo e alla nascita del governo Monti. Il nucleo fondamentale è costituito comunque dagli anni Ottanta, snodo decisivo della nostra storia (e di quella dell’Occidente), con un rapido excursus finale sugli anni della Seconda Repubblica.
In tutta sincerità , va detto che il risultato complessivo è inferiore a quello dei volumi precedenti, per molte ragioni: non tanto perché l’argomento è troppo vicino a noi, quanto perché, malgrado le apparenze, non siamo interamente fuori da clima e cultura di quegli anni, non abbiamo fatto i conti fino in fondo con quel lascito, e come i personaggi di un memorabile film di Luis Buà±uel, L’angelo sterminatore, non riusciamo ancora a varcare la soglia di uscita, per motivi che razionalmente ci sfuggono e che dobbiamo ancora chiarire fino in fondo a noi stessi.
Inoltre, Crainz estremizza in questo libro caratteristiche già presenti nei volumi precedenti. Già c’era pochissima politica estera, ma ora scompare quasi del tutto, anche in una fase in cui il collegamento all’Europa diviene condizionante e stringente. C’è solo un breve cenno di plauso alla guerra contro la Serbia nel discorrere del governo D’Alema e delle convulsioni interne al fronte ulivista in crisi: avvenimento che pure fu traumatico per una parte rilevante se pure minoritaria della sinistra e che, con gli entusiasmi suscitati nell’intellettualità italiana ed europea, segnò un mutamento di cultura ragguardevole su un versante molto delicato.
La scommessa riformatrice
Nel lungo flashback iniziale Crainz ripropone una visione d’insieme già risalente ai volumi precedenti (e riproposta nel più recente Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Donzelli, qui recensito il 9/12/2009). L’illusione riformatrice sfuma già agli albori del primo centrosinistra, le occasioni perdute si sommano fino a dar luogo al fallimento della costruzione di un paese nuovo. Gli anni seguiti al Sessantotto, già giudicati severamente nel volume precedente, qui vengono rubricati sbrigativamente come «decennio mancato». Eppure sono gli anni in cui si realizzano le riforme di portata più vasta nella nostra storia, dallo Statuto dei lavoratori all’ordinamento regionale, alla legge Basaglia, all’obiezione di coscienza, divorzio e aborto, voto ai diciottenni, sistema sanitario nazionale, liberalizzazione degli accessi all’università . Queste riforme non sfuggono all’autore, ma vengono sempre presentate con attenuazioni che imprimono un’ombra negativa, per lo più collegata alla presenza dei partiti e della politica. Quello che è vero è che siamo fuori da un autentico disegno riformatore, che non sopravvive all’affievolirsi delle illusioni programmatrici del primo centrosinistra: ma il meccanismo particolare del riformismo concreto e non libresco in Italia sarà sempre affidato all’azione congiunta di pressione dal basso e libera determinazione parlamentare, quel modello di democrazia repubblicana che il decisionismo e il culto del maggioritario degli anni successivi tenteranno, con successo, di sopprimere alla radice.
Il rilievo critico più fondato e originale rispetto alla memoria diffusa di quegli anni è però un altro, già anticipato in precedenza e qui ribadito e rafforzato, e che investe natura e qualità della modernizzazione italiana e di quel particolare processo di «secolarizzazione» della società italiana, più ricco di sfumature e ambiguità di quanto intendessero al tempo i cantori acritici del progresso. Già prima degli anni Ottanta e del trionfo conclamato dell’individualismo, la modernità italiana – ma non solo nel nostro paese, in realtà – si connota di una torsione particolare.
Irrompe la questione morale
Nel clima di socialità diffusa e quasi urlata si faceva strada sottotraccia un modello acquisitivo individuale che poi emergerà in piena luce. Come aveva notato per primo Piero Scoppola, sarà significativo nel 1981 il risultato parallelo di due referendum, quello sull’aborto e quello sull’ergastolo, che vedono entrambi con ampie maggioranze la conferma delle leggi esistenti: l’affermazione di libertà individuale non si coniuga con sentimenti di umanità e di pietas. E già nel 1978 il Censis aveva segnalato «una specie di dislocazione selvaggia, particolaristica, furbastra e conflittuale dei poteri e delle decisioni, in una sorta di filosofia dell'”ognuno per sé e Dio per tutti” in cui tutto c’è tranne che moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni, rispetto delle regole del gioco statuale».
Negli anni Ottanta la rivoluzione individualista diverrà irreversibile, dato acquisito sull’onda di un benessere facile e illusorio. I bollettini trionfali delle borse scandiscono quasi tutto il decennio, e nel 1986 assumerà valore simbolico che perfino l’Unità e il Corriere dello sport decidano di pubblicare i listini giornalieri.
Sono gli anni del «pentapartito», basato su una sostanziale complicità tra governanti e governati, sullo spreco e sull’indebitamento, su colossali condoni fiscali ed edilizi che entrano a far parte della norma anziché dell’eccezionalità . In tanto discorrere di «assenza di regole», forse non si tien conto che la somma di regole non scritte viene a rafforzare una «Costituzione materiale» già in corso d’opera ma ora potenziata e inasprita, che si fonda sul doppio registro fiscale tra lavoro dipendente e autonomo, sulla tolleranza dell’evasione ma ancor più dell’elusione fiscale.
È anche il decennio in cui matura l’idea che il maggiore ostacolo allo sviluppo di una «democrazia a tutti gli effetti» sia la presenza di una «partitocrazia» (il termine prima quasi clandestino, riservato al qualunquismo diffuso,viene ormai sdoganato) «decadente, inefficiente e corrotta», in una pratica di «occupazione del potere» operata dai partiti che grava come una cappa sul libero dispiegamento di una società civile onesta e operosa. I partiti politici sono diventati «macchine di potere e di clientela… non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”… I partiti hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università , la Rai tv, alcuni grandi giornali… Il risultato è drammatico». La denuncia è quella, durissima, contenuta nell’intervista rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari nel luglio del 1981. Molto più che un grido d’allarme, conteneva una diagnosi impietosa ma rischiava di affidare la terapia all’indignazione sulla «questione morale» sganciata da una proposta politica realistica, e che in effetti verrà sostituita da scorciatoie che a distanza soppesiamo in tutta la loro fragile consistenza e nelle implicazioni che contenevano.
Crainz ha il merito di registrare l’insostenibilità di quel mito della società civile sede di ogni virtù contrapposta alla politica corrotta su cui si è fondata gran parte dell’ideologia diffusa degli ultimi trent’anni. Una «generosa illusione» (o forse un autoinganno collettivo), durata troppo a lungo e di fatto non tramontata, anzi in qualche modo estremizzata e incrudelita.Da vent’anni stiamo sostituendo i sempre più mediocri professionisti della politica con industrialotti brianzoli e veneti, tecnocrati, agopuntori, igieniste dentali, soubrettes televisive, professionisti della società civile e dell’Antimafia. I risultati non sono stati granché.
La politica diviene il capro espiatorio durevole, che serve anche a coprire la pochezza di tutta la classe dirigente italiana (la Banca d’Italia e il sindacato saranno le uniche istituzioni solide cui si attingerà nei momenti di emergenza).
L’ingegneria istituzionale diviene la chiave di volta di tutto il dibattito politico, e nei primi anni Novanta postcomunisti e Confindustria, grande e piccola stampa appoggeranno fervidamente l’ubriacatura referendaria che porterà all’abbandono della rappresentanza proporzionale su cui si era fondata la Repubblica. Si apre un periodo di regressione politica e sociale, in contrasto stridente con le aspettative palingenetiche con cui l’avvio del maggioritario era stato salutato, e che non sfugge certamente all’autore. Si salva solo il primo governo Prodi, che ha assunto ormai nella memoria ulivista lo stesso alone mitico che ebbe il governo Parri nella memoria azionista. E che accanto ai suoi meriti – sul terreno pressoché esclusivo dei conti pubblici – andrebbe anche ripensato, di là del mito, per ciò che introdusse in termini di precarietà del lavoro, svendite e privatizzazioni in perdita, avvio della distruzione dell’Università .
Un altro mito di cui bisogna costatare la caduta è quello della fine del cosiddetto «eccezionalismo italiano». All’avvio del ciclo, moltissimi opinionisti (e anche qualche storico) avevano salutato l’ingresso a pieno titolo nell’Occidente dell’alternanza, lasciati alle spalle «bipartitismo imperfetto» e consociativismo. Vent’anni dopo, l’«anomalia italiana» è rafforzata, conclamata e quasi data per scontata da tutti gli osservatori internazionali.
Il partito «novecentesco», sulla fine del quale molti esultano anche a sinistra, resiste rinnovandosi in Europa, dove i socialisti possono vincere o perdere ma se perdono comunque cadono in piedi, hanno identità , insediamento sociale e una struttura più radicata di un semplice comitato elettorale. C’è da chiedersi perché la politica in Italia abbia finito per somigliare molto di più alle demokrature dell’Europa orientale, con partiti personali e aggregazioni populiste anziché alla vicenda dei partiti dell’Europa centro-occidentale, dove i cittadini non hanno votato per Forza Germania o strani nomi di animali e di frutti, ma per formazioni politiche riconducibili alle grandi famiglie della politica europea.
La casta degli opinionisti
La politica «incapace di riformarsi e di cogliere i mutamenti della società »: è una frase che comincia a venire ripetuta, e con molte ragioni, negli anni Ottanta, ma che potrebbe essere estratta anche dagli editoriali di oggi. Di fronte a tanta fissità interpretativa, viene da chiedersi se al contrario qualche forza politica si sia riformata anche troppo e troppo spesso, a strappi, sull’onda mutevole dei sondaggi, in maniera inconsulta e obbedendo agli umori mutevoli degli editorialisti della grande stampa (in particolare Corriere e Repubblica, laddove forse leggere il Giornale sarebbe più utile agli storici del futuro per capire gli umori profondi del paese). E a ben vedere proprio le «grandi firme» sono i veri protagonisti occulti del libro, che si basa in larga misura sulla consultazione paziente delle fonti giornalistiche. Quella degli opinionisti appare l’unica casta veramente inamovibile, più duratura dei politici e degli industriali, composta da interpreti a volte molto acuti nella denuncia dei mali italiani ma disastrosi nell’indicare terapie e soluzioni.
«Quando il Governo Berlusconi prima o poi cadrà , sul paese non sorgerà un’alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico». È una frase indubbiamente veritiera, ma Sandro Viola la scrisse su Repubblica il 6 dicembre 1994. Qui siamo davvero di fronte a un «ventennio mancato», di stagnazione e regressione insieme, nel quale non solo la politica, ma tutta la società italiana ha girato a vuoto, senza trovare vie d’uscita che non fossero una gretta chiusura particolaristica attraversata infine da pulsioni anarco-capitaliste.
Il paese irreale, ancor più immaginario, è l’eredità che viene consegnata a una società impoverita e incattivita, frantumata e senza forma riconoscibile, senza passato e senza un futuro immaginabile. E che però ogni vent’anni improvvisamente si resetta e torna ad essere un popolo bambino che accetta caramelle dagli sconosciuti.
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