Le fabbriche delle élite

by Sergio Segio | 14 Maggio 2013 6:14

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NEW YORK. L’allarme più recente viene dall’Inghilterra. Dal Guardian al New Statesman, i media denunciano la tendenza del premier David Cameron a circondarsi di collaboratori “etoniani”. Cioè usciti dallo stesso Eton College dove si formò lui. Selezionare gli alti dirigenti dello Stato e i leader politici da quella esclusiva “boarding school”, denuncia la stampa inglese, significa costruire nuove oligarchie, calpestando la meritocrazia e ostacolando la mobilità  sociale.
La controversia non è solo inglese. Al contrario, in tutto il mondo occidentale serpeggiano sospetti e diffidenze verso i nuovi clan di potere, spesso formati sui banchi di scuole e università  élitarie, prestigiose, inaccessibili per la maggioranza dei cittadini (o dei loro figli). A quest’accusa se ne affianca un’altra, non meno grave: se i nostri governanti vengono formati e selezionati in istituzioni troppo selettive, veri e propri club per privilegiati, come possono capire i problemi della gente comune? Da una parte c’è il risentimento verso i privilegi delle “caste” superiori — fenomeno non solo italiano — dall’altro una crescente sfiducia nelle loro capacità  di risolvere la crisi economica.
In Italia il governo “bocconiano” di Mario Monti è stato sostituito da quello di Enrico Letta, formatosi alla Scuola Sant’Anna di Pisa. Inevitabile, che nella cerchia dei loro collaboratori figurino dei “compari” con curriculum accademici simili.
Perfino in un paese come il nostro, le cui università  non figurano in cima alle classifiche mondiali, esistono comunque degli atenei percepiti come “élitari”, abituati a sfornare pezzi di classe dirigenti, e quindi a creare una mentalità  da “clan”, reti di amicizie, cordate utili per fare carriera nella politica o altrove.
Le polemiche divampano anche in Francia. Le fortune politiche declinanti di Franà§ois Hollande vengono sottolineate con una sorta di insulto: «Enarca». Se questo presidente socialista ha deluso le aspettative degli elettori, e la sua popolarità  è crollata, per i suoi detrattori la causa è anche quella: come troppi “grand commis” dello Stato francese, Hollande è un tipico prodotto dell’Ecole Nationale d’Administration (Ena), la fucina della classe dirigente. Un corpo separato, insomma, una sorta di palestra dei leader troppo avulsa dalla società  civile, dall’economia reale. È un paradosso, perché l’Ena venne fondata nel 1945 dal presidente Charles de Gaulle e dall’intellettuale- ministro Michel Debré, proprio con la missione di «democratizzare l’accesso ai vertici della pubblica amministrazione». Attraverso regole di reclutamento puramente meritocratiche, l’Ena doveva spalancare le porte del governo ai francesi più bravi, indipendentemente dal ceto sociale di origine. In parte c’è riuscita, ma il suo successo ha un prezzo. L’Ena è diventata il simbolo di un establishment auto-referenziale, abituato a promuovere i propri simili. Fino a formare un suo “pensiero unico”, una serie di valori e di regole condivise dai gollisti ai socialisti. Nella storia della Quinta Repubblica, l’Ena ha sfornato tre presidenti della Repubblica, sette primi ministri, la maggioranza assoluta dei prefetti, e anche tanti Présidents Directeurs Généraux, chief executive di multinazionali e banche. A lungo questa sembrò una forza del sistema francese: da una parte la sua attenzione alla formazione delle classi dirigenti; dall’altra una certa omogeneità  tra destra e sinistra, su alcuni valori comuni fondamentali della République. Oggi, in tempi di recessione e con una società  civile disillusa sui governanti, anche l’Ena finisce sul banco degli imputati.
Se questa storia ha un inizio, bisogna cercarlo qui in America. Perché nessun’altra nazione al mondo ha costruito la sua leadership investendo così tanto nel sistema universitario. E nessun’altra superpotenza ha mai innalzato, glorificato, idolatrato a tal punto gli “esperti” al governo. Chiamateli tecnocrati, se preferite il neologismo corrente. Negli anni Trenta, il presidente Franklin Delano Roosevelt si circondò delle celebri “teste d’uovo”, professori universitari usciti dai migliori atenei d’America, per concepire le politiche anti- depressione del New Deal.
Sotto John Kennedy li ribattezzarono “the Best and the Brightest”, i migliori e i più brillanti. Erano gli uomini incaricati di elaborare la politica estera della Casa Bianca. Spesso il presidente li reclutava dalla stessa università  dove si era laureato lui. E questa tradizione non si è mai interrotta. L’unica differenza, rispetto all’Ena francese o al fenomeno degli “etoniani” in Inghilterra, è che negli Stati Uniti la schiera delle superscuole è più vasta e concorrenziale, a immagine e somiglianza della nazione. C’è una rivalità  antica in questo campo: fra Harvard e Yale. In vantaggio rimane Harvard, con otto presidenti degli Stati Uniti che vi si sono laureati, oltre a 75 premi Nobel, e 62 imprenditori miliardari (tra questi ultimi contando solo i vivi). Da Harvard sono usciti con un diploma i presidenti John Adams, John Quincy Adams, i due cugini Theodore e Franklin Roosevelt, John Kennedy. Ma più di recente Barack Obama, pur avendo preso la sua prima laurea alla Columbia University di New York, finì col conseguire il diploma di Law School anche lui a Harvard. Mentre Yale ha formato i due George Bush padre e figlio, nonché (alla sua Law School) Gerald Ford e Bill Clinton. Il panorama americano è più competitivo grazie a Princeton, Stanford, Berkeley, Johns Hopkins, e vari altri super-atenei che hanno prodotto anch’essi generazioni di vip, dirigenti politici o economici. E tuttavia anche negli Stati Uniti questo sistema viene messo sotto accusa. A riprova, il direttore delle relazioni esterne di Harvard, Jeff Neal, è stato costretto a scrivere una lunga lettera al New York Times, per rispondere alle critiche sempre più pesanti sul suo sistema di selezione degli iscritti. «Harvard accoglie studenti di talento da ogni ambiente etnico e sociale — ha scritto Neal — e noi garantiamo un esame olistico, completo, che guarda ai risultati accademici, alla leadership, alle referenze, al carattere, alle esperienze di lavoro». Questa lettera, che dovrebbe placare le polemiche sulla iper-selettività  di Harvard (meno del 10% delle domande di ammissioni ricevono una risposta positiva), al contrario le ha rinfocolate. Perché è proprio dietro l’approccio “olistico” che si nascondono ingiustizie, discriminazioni, favoritismi. I figli di “alumni”, rampolli di buona famiglia i cui padri e nonni già  uscirono da Harvard e ne sono generosi donatori, hanno delle corsie preferenziali implicite. Lo stesso vale per tutte le università  di élite: non si spiega altrimenti il fatto che George W. Bush fu accettato nell’università  del padre pur essendo (per sua stessa ammissione) uno studente mediocre. Il vantaggio per Yale, di avere un figlio di presidente? Sta tutto in una parola: “Networking”. Nelle superscuole non si va soltanto per ricevere un’istruzione di alta qualità  dai migliori docenti del pianeta, ma anche per conoscere le persone “giuste”. Networking, cioè letteralmente “lavoro di rete”, è l’investimento in relazioni umane, conoscenze: spesso il più redditizio nel lungo termine. Questo spiega perché perfino i rampolli dei presidenti cinesi finiscono a Harvard… Ma il pericolo è identico a quello che si corre nella vecchia Europa. Una requisitoria implacabile è nel saggio “Perché le nazioni falliscono”, di Daron Acemoglu e James Robinson (tradotto ora in Italia dal Saggiatore). Il declino colpisce quelle nazioni che si trasformano da “società  inclusive” a “società  estrattive”. Ovvero, quando diventano oligarchiche, governate da élite che si auto-perpetuano. Il rischio di un mondo dominato dalle superscuole è proprio questo: società  ingessate, incapaci di ricambio, dove la mobilità  sociale si blocca.

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