Le armi chimiche di Assad quella sottile linea rossa che ora imbarazza Obama

by Sergio Segio | 6 Maggio 2013 7:25

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L’ESCALATION di interventi militari israeliani in Siria può preludere alla deflagrazione di un conflitto più vasto. E Obama forse maledice in cuor suo la “red line”, la linea rossa.È L’ESPRESSIONE che il presidente stesso coniò: per indicare che l’uso di armi chimiche da parte del regime di Damasco avrebbe “cambiato i calcoli strategici” dell’America. Ora quel termine viene contestato (ufficiosamente) da alcuni suoi consiglieri, che lo giudicano imprudente.
Gli attacchi di Israele possono rientrare in una sorta di «guerra per procura» in cui il vero obiettivo finale è l’Iran. Intanto i colpi israeliani dal cielo indeboliscono alcune strutture militari di Bashar al Assad, dunque indirettamente aiutano l’opposizione siriana. Svolgono un ruolo di supplenza in favore dei ribelli, mentre l’Occidente è titubante e indeciso. Da una parte Francia e Inghilterra sono favorevoli a un’azione più incisiva contro Assad. Dall’altra Obama, che affronta la prima grave crisi internazionale del suo secondo mandato, per i suoi detrattori appare «indeciso a tutto». Perfino tra i media più vicini alla Casa Bianca, si moltiplicano le analisi impietose sul comportamento del presidente. Per il New York Times, Obama «si è messo in una trappola geopolitica, la sua credibilità  è in gioco, ha poche opzioni buone». Un retroscena che ricostruisce lo stesso New York Times
risale all’agosto 2012. Fu allora che l’intelligence Usa ricevette i primi segnali che Assad si preparava a usare armi chimiche contro i rivoltosi, e contro la popolazione nelle zone da loro controllate. In una serie di riunioni con i suoi esperti della sicurezza, culminate il 20 agosto scorso, Obama concluse che doveva mandare un segnale forte per dissuadere Assad. Ma una volta in conferenza stampa, il presidente usò un termine che nessuno dei suoi gli aveva consigliato. Disse, appunto, che con l’eventuale ricorso alle armi chimiche Assad avrebbe «varcato una linea rossa», e a quel punto i calcoli strategici dell’America sarebbero cambiati. Più di recente, nel suo viaggio in Israele a marzo, Obama ha ribadito il concetto usando un’altra frase forte: l’impiego di armi chimiche sarebbe un “game changer”, una novità  in grado di cambiare il gioco. I suoi consiglieri più critici sostengono che fu un errore. Uno statista, a maggior ragione il presidente degli Stati Uniti che governa la superpotenza mondiale, dovrebbe sempre conservare il massimo di flessibilità , non scoprire le sue carte, mantenersi un ventaglio di opzioni. Parlando di linea rossa, Obama ha dato un potere implicito ad Assad. È il dittatore siriano a decidere se “il gioco cambia”. E una volta che lui ha varcato la linea rossa, se l’America non interviene perde la faccia, svaluta la propria credibilità  verso altri avversari: dall’Iran alla Corea del Nord.
Ora, sembra davvero che la linea rossa sia stata oltrepassata, eppure nulla accade di nuovo (se si eccettuano i blitz israeliani) per fermare il massacro della popolazione siriana. Atrocità  come l’uso del gas nervino restano impunite. In una prima fase, la cautela di Obama era motivata con l’attesa di prove incontrovertibili. Scotta il ricordo delle menzogne di George Bush sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, un’impostura che lasciò una macchia durevole sulla credibilità  degli Stati Uniti. Ma a questo punto l’attesa di “prove certe” sembra diventata quasi un alibi. Dietro ci sono resistenze più profonde. Lanciare l’America in un intervento militare — sia pure con nobili cause umanitarie, per fermare un massacro — è una decisione tremenda, per il presidente che vuol passare alla storia come colui che chiuse le guerre avviate dal suo predecessore. Aver riportato a casa i soldati dall’Iraq, e fare lo stesso con l’Afghanistan: questi sono due atti per i quali Obama vuol essere ricordato. Non vuol essere lui ad aprire una terza guerra, a rifare “lo sceriffo del mondo”, ancora in Medio Oriente. Su questo punto il presidente gode di un consenso bipartisan. “No boots on the ground”, niente scarponi militari (americani s’intende) sul terreno, è uno slogan su cui concordano anche i repubblicani. Le perplessità  di Obama si estendono però ad altre forme di intervento: dai cieli, sotto forma di no-fly zone e bombardamenti contro le forze di Assad; ovvero con forniture di armi ai ribelli. Scotta il ricordo della primavera egiziana, dove l’appoggio Usa verso le rivolte antiautoritarie non ha impedito l’avvento al potere di movimenti radicali e antiamericani. Se in Siria c’è al Qaeda, e un prossimo attentato contro l’America usasse armi… “made in Usa”? Il columnist Thomas Friedman ricorda un proverbio arabo: “Quando ti sei scottato la lingua con la minestra bollente, poi soffi anche sullo yogurt”. E chi ci dice — osserva Friedman — che la Siria sia lo yogurt?

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