Lavoro, le scelte inevitabili

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Per questo c’è bisogno di invertire la rotta anziché limitarsi a fare solo qualche passo indietro. Oggi, ad esempio, Confindustria, nell’affrontare il problema del lavoro propone semplicemente di smantellare parti della legge 92. Ma non è tornando a prima della legge Fornero che possiamo risolvere, come d’incanto, i problemi di fondo del nostro mercato del lavoro! Ricordiamoci che nel luglio 2012, all’atto di entrata in vigore di quella riforma, il tasso di disoccupazione era già  quasi all’11 per cento e quello giovanile oltre il 35 per cento.
Se è il declino economico il vero pericolo da cui guardarsi, è giusto comunque prendersela, come ha fatto ieri il leader degli industriali, con gli impasse e i rinvii della politica nell’affrontare le vere emergenze del Paese. A parole i politici sono tutti d’accordo nel sostenere che il lavoro sia la priorità  numero uno. Non potrebbero fare altrimenti dato che è così che la pensano gli italiani, almeno a giudicare dai sondaggi. Vorrebbero però, questi ultimi, qualcosa di più delle parole. Ma, da una parte, c’è chi minaccia di aprire la crisi di governo se le esigue risorse disponibili non verranno destinate tutte all’abolizione dell’Imu anziché a ridurre le tasse sul lavoro. E, dall’altra, c’è un partito che, coerentemente con la sua campagna elettorale, continua ad affermare che il lavoro è il problema numero uno, ma non formula proposte concrete a riguardo. Nel mezzo, il governo, che rischia di trovarsi povero non solo di fondi ma anche di idee.
Vediamo allora alcune cose che potrebbero essere fatte a costo zero e altre che potrebbero essere realizzate a costo contenuto, con meno della metà  delle risorse richieste dall’abolizione dell’Imu sulla prima casa.
La riforma Fornero sta contribuendo a ridimensionare alcune figure contrattuali che, prima della sua entrata in vigore, continuavano a crescere nonostante la crisi. Tra queste, il lavoro a chiamata (o job-on-call), le associazioni in partecipazione e i contratti a progetto ma senza che a questa distruzione di posti precari abbia corrisposto la creazione di posti a maggiore stabilità . Il problema è che la legge Fornero non ha creato alcun percorso di stabilizzazione che offra al datore di lavoro un’alternativa ai contratti di lavoro precari (alla cosiddetta “flessibilità  cattiva”) in essere. Vero che la riforma ha puntato molto sul contratto di apprendistato, prevedendo anche forti incentivazioni fiscali. Ma il contratto di apprendistato non copre i lavoratori più anziani e il lavoro intellettuale. Inoltre, può essere interrotto senza alcun indennizzo al termine del periodo di apprendistato e richiede una normativa regionale per entrare in vigore mentre siamo in piena emergenza. Bisogna a questo punto prendere atto che il tentativo è fallito e intervenire al più presto con un contratto d’inserimento che si proponga di dare orizzonti lunghi, di stabilizzare gradualmente il lavoratore. È questa la filosofia del contratto a tutele progressive proposto in un disegno di legge che giace da anni in Senato e alla Camera. È un contratto fin da subito a tempo indeterminato e con tutele (in termini di settimane di retribuzione) crescenti con la durata dell’impiego. Più si rimane nell’impresa, più costoso diventa, mese dopo mese, il licenziamento per il datore di lavoro. Si può accedere a questo contratto anche da contratti a tempo determinato, ma chiaramente partendo dall’anzianità  già  maturata. In questo contesto si possono superare gli ostacoli burocratici posti in essere dalla riforma Fornero al rinnovo dei contratti a tempo determinato (in termini di periodi minimi tra un contratto e l’altro e causali). Il principio dovrebbe essere sempre quello di non introdurre mai nuova burocrazia. Se si vuole scoraggiare le imprese ad abusare di figure contrattuali improprie, meglio imporre i minimi retributivi per queste tipologie di contratti, compensando la flessibilità  con una retribuzione più alta. Meglio, in altre parole, premiare il lavoratore e non la burocrazia, il che ci porta alla seconda proposta a costo zero. La recessione ha ulteriormente rafforzato il potere contrattuale dei datori di lavoro nei confronti dei dipendenti. E il nostro mercato del lavoro non ha standard minimi retributivi. Questi minimi vengono affidati alla contrattazione collettiva che lascia fuori i lavoratori più vulnerabili, dagli immigrati alle donne che rientrano dopo periodi di maternità , ai giovani precari. Sono più di un milione e mezzo coloro che oggi in Italia guadagnano meno di 5 euro all’ora, nella maggioranza donne (53%), giovani (30%) e immigrati (20%). Operano soprattutto nel commercio, nell’industria e in agricoltura. Come documentato recentemente da lavoce.info, il nostro paese è quello nell’Ocse in cui i minimi fissati dalla contrattazione collettiva vengono maggiormente disattesi. Bene perciò introdurre come in altri paesi un salario minimo orario. Si dirà  che un salario minimo può ridurre l’occupazione. Vero: se fissato ad un livello troppo alto può impedire a molte persone con bassa produttività  di lavorare. Ma studi basati su esperienze in altri paesi (dagli Stati Uniti al Regno Unito) dimostrano che un salario minimo non troppo alto può creare lavoro. Questo avviene perché impedisce ai datori di lavoro di sfruttare il loro eccessivo potere contrattuale per abbassare il costo del lavoro su livelli a cui molti non sono disposti a prestare lavoro perché, ad esempio, preferiscono occuparsi della cura dei figli. Quando si è in queste condizioni, l’aumento del salario porta ad aumentare anche l’occupazione. E serve al contempo a ridurre un fenomeno in aumento: la povertà  fra chi lavora. Le due proposte di cui sopra sono a costo zero per le casse dello Stato. Per ulteriormente rafforzare gli effetti positivi del salario minimo sull’occupazione, e facilitare l’emersione di lavoro nero, si potrebbe integrarlo con un sussidio condizionato all’occupazione, una misura che potrebbe costare attorno ai 2 miliardi sulla base dei dati disponibili (fonte Istat, perché quelli dell’Inps sono di proprietà  privata del suo Presidente multi-seating).
L’integrazione salariale verrebbe data chiaramente solo a chi lavora. Come nel programma Aufstocker tedesco, coprirebbe la differenza fra il salario orario netto effettivamente percepito e 5 euro. In altre parole, lo Stato pagherebbe di fatto la differenza fra il salario minimo e 5 euro. È una misura che dovrebbe far emergere sommerso e creare lavoro soprattutto fra i giovani, contribuendo in parte al suo finanziamento. Nel caso in cui si volesse adottare una soglia più alta e alleggerire il carico fiscale al di sopra di questi minimi, si potrebbe ricorrere ai fondi della Ue facendo davvero fruttare l’imminente vertice europeo sulla disoccupazione giovanile per decidere come allocare i fondi del programma speciale per aree con disoccupazione giovanile superiore al 25%. Ancora, si potrebbero utilizzare una parte di quei 7 miliardi che ogni anno destiniamo alle politiche attive del lavoro. A proposito: bene occuparsi di costruire una rete efficiente di servizi per l’impiego. Ma in una recessione così pesante non può essere la priorità : le politiche attive servono soprattutto a fare incontrare meglio la domanda e l’offerta di lavoro, e oggi la domanda non c’è. Non è reclutando un maggior numero di posteggiatori che si aumentano i posti disponibili per il parcheggio attorno allo stadio prima di un derby. Meglio racimolare tutte le risorse disponibili e utilizzarle per rendere al contempo più pesante la busta paga di chi lavora e più leggera quella di chi offre un impiego.


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