L’amaro risveglio del Brasile Il miracolo si è già  fermato

by Sergio Segio | 29 Maggio 2013 8:11

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RIO DE JANEIRO — Sarà  che nella foresta amazzonica animali davvero veloci non ce ne sono, ma adesso è più facile capire perché il Brasile non ha mai guadagnato l’appellativo di «tigre» in economia, nemmeno negli anni migliori. Possono dire di averlo previsto gli economisti liberali, che hanno sempre storto il naso davanti ad una crescita esplosa sotto un presidente socialista ed ex sindacalista come Lula. Contrapponendosi ai fan del modello Brasil, i quali assicurano oggi che si tratti solo di una salutare tirata di fiato. Ma i fatti sono gli stessi, e inconfutabili: il miracolo si è fermato. Troppo presto per un «Bric», un Paese enorme e in via di sviluppo che per la crescita della popolazione e delle sue aspettative non può certo accontentarsi del magro più 1 per cento che ha segnato il reddito nazionale nel 2012. Troppo deludente per chi vedeva nel Brasile un buon esempio di crescita senza eccessi e distorsioni, in piena democrazia e, soprattutto, accompagnato da una robusta diminuzione delle ineguaglianze e della povertà . Il numero più sbandierato degli ultimi anni — i trenta milioni di brasiliani che hanno fatto il salto dalla sussistenza al consumo, diventando classe media — è ancora valido. Ma il meccanismo che ha portato a questo successo in poco tempo si è inceppato. Perché sia avvenuto non è difficile capirlo, come riprendere la corsa interrotta lo è assai di più.
Nei giorni scorsi un editoriale del Financial Times ha sostenuto che in Brasile vige un falso ottimismo sulle previsioni economiche per l’anno in corso. Mentre il governo di Dilma Rousseff dovrebbe guardare in faccia la realtà , e porre rimedio agli errori che hanno prosciugato — per esempio — gli investimenti stranieri. Qualcuno sostiene che tra gli otto anni di Lula e il successivo mandato della sua erede politica vi sia una discontinuità , anche di tipo ideologico. Affascinato dagli effetti positivi del rigore finanziario il primo, dopo la sterzata che gli ha permesso di andare al potere, più statalista e centralizzatrice la seconda. Il Brasile di Dilma, insomma, sarebbe meno liberista di quello di Lula, e questo spiegherebbe alcuni fenomeni: la ripresa dell’inflazione, per esempio, o la politica monetaria più altalenante. In realtà  la Rousseff si è trovata davanti il tramonto di un modello tutto orientato sulle esportazioni di materie prime ai massimi di prezzo, e sul consumo interno. Quest’ultimo, soprattutto, segna il passo, dopo l’abbuffata di debiti contratti dalle famiglie, per assicurarsi ogni bene di consumo gradito — in comode rate da due anni, senza lesinare sulle carte di credito — nell’idea tutta lulista che agli ex poveri non può essere negato nulla. L’ultima ondata di sgravi fiscali per rilanciare l’acquisto delle automobili, per esempio, è servita a poco, con qualche preoccupazione anche per la Fiat, tuttora leader di mercato. Una volta che in (quasi) ogni casa è arrivata una lavatrice, un frigorifero e un computer, la corsa ai negozi ha naturalmente rallentato.
Oggi il Brasile, per effetto di questa politica, è un Paese quasi in piena occupazione, ma con un costo della vita alto, una moneta sopravvalutata, sull’orlo di una bolla immobiliare in molte città  e con un tasso di investimenti assai basso (il 18% del Pil, contro il 30 delle potenze asiatiche). Non risparmiano i privati, dunque, e nemmeno lo Stato: poche formiche e molte cicale in entrambi i mondi. La macchina pubblica è pesante e sovradimensionata, la casta politica peggiore della nostra, i privilegi dei dipendenti pubblici ancora eccessivi. Intanto gli imprenditori brasiliani hanno sia lamentele da primo mondo (tasse troppo alte, scarsa flessibilità  del lavoro), sia magagne da Paese sottosviluppato: strade terribili, niente ferrovie, porti che non ce la fanno dopo il boom degli scambi commerciali. Prendiamo il caso più evidente: la produzione ed esportazione di soia. Il Brasile è leader mondiale, il suo maggior cliente è la Cina, ma l’82 per cento dei raccolti è costretto a viaggiare su camion lungo strade dissestate e aspettare due settimane fuori dai porti per imbarcarsi. Risultato: 3,3 miliardi di dollari sono persi ogni anno dall’agrobusiness in ritardi, incidenti, burocrazia e ovviamente tangenti.
I due sogni del Brasile del terzo millennio — le grandi riserve di petrolio sotto l’oceano e l’etanolo come combustibile pulito — incontrano enormi difficoltà . La produzione di alcol per auto è in calo da anni, non conviene più ai coltivatori piantare canna da zucchero perché le grandi e sognate esportazioni non si sono verificate. E grave è stato l’errore della coppia Lula-Dilma di lasciare quasi l’intera esplorazione petrolifera in acque profonde nelle mani della pubblica Petrobras, che non ha le risorse necessarie, facendo scappare le compagnie straniere. Il Brasile ha un bisogno disperato di nuovi investimenti, scrive il Financial Times, ed è assurdo che non possa approfittare degli ingenti capitali a basso costo che girano nel mondo in questi anni. Quando mai si ripeterà  un momento così favorevole? Qualcosa naturalmente arriverà  per i grandi eventi, come i Mondiali del 2014 e le Olimpiadi di Rio nel 2016, ma il grosso dovrebbe essere applicato a un piano di investimenti in infrastrutture: strade, porti, treni veloci, aeroporti. Il governo brasiliano ci ha provato qualche anno fa, sbandierando un piano accelerato per la crescita. Ma erano tutti soldi pubblici, e si obbligavano le imprese ad usare solo prodotti brasiliani. Ha funzionato, ma troppo poco.

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