La sublime ostinazione della filosofia
Proprio nel tempo delle passioni tristi, del sentimento evanescente, dei dialoghi muti e dei pensieri affievoliti affiora l’urgente bisogno di «terapia filosofica» che restituisca etimologia alle parole e senso compiuto alle idee. È la «meravigliosa» ostinazione a ripercorrere sentieri interrotti, guardare in faccia la maschera tragica, inseguire partiture o eccedere confini prestabiliti.
«La passione è la sorgente e l’alimento imprescindibile dell’autentico filosofare. Non comincia quando al calore delle passioni si sostituisca il freddo rigore di una ragione apatica. Esattamente al contrario: non sarebbe neppure concepibile sganciato dalla polivalente esperienza del thaumà¡zein, dal timore e tremore in esso racchiuso». Così Umberto Curi schiude un orizzonte radicalmente originale con il suo ultimo saggio Passione (Raffaello Cortina, pp. 220, euro 13). Fresco di stampa, rappresenta per molti versi l’approdo naturale delle ricerche condotte per lustri a Padova dalla cattedra del Liviano.
Con questo nuovo volume di Curi si ritorna a Platone e Aristotele, ma soprattutto ai nodi tragici e mitologici della classicità . Ma insieme attraversa l’iconografia religiosa insieme alla macchina da presa. O ascolta Mozart con lo sguardo di Giotto e si vede Pasolini con l’eco di Bach.
Curi disegna così mappe che intersecano conoscenza e dolore (il mito di Prometeo), compulsione e stratagemma (le diverse versioni di Don Giovanni), umanità e compassione (dentro e fuori i testi sacri) fino a tratteggiare il volto della Gorgone che si riflette nella postura visionaria della Pizia.
È a quest’altezza che si inquadra la presa diretta di Passione che scruta il furore di Mel Gibson alla luce di Pier Paolo Pasolini. Un filosofo davanti al grande schermo che proietta le versioni del calvario della fede. L’ossessiva contabilità della passione di Cristo (62 mila lacrime, 303 ferite, 900 gemiti) si dissolve nelle sequenze del «Vangelo secondo Matteo».
Curi evidenzia la potenza poetica di Pasolini: «Fedele alla raccomandazione aristotelica di tenere fuori dalla scena tutto ciò che possa risultare meramente “raccapricciante” (e, dunque, per definizione “non tragico”), nessuna atrocità è esibita lungo tutto un’opera di ammirevole rigore artistico e concettuale. Al contrario, perfino rispetto al testo evangelico assunto come riferimento, il film si caratterizza specificamente per le ellissi e le omissioni, per il non detto e il non mostrato, più che per ciò che viene apertamente esplicitato».
È la stessa compassione che ancora brilla nella Cappella degli Scrovegni, dove Giotto si inventa l’icona senza riscontri evangelici. L’arte avvicina la scena della deposizione e insieme rivoluziona la linea dei sentimenti: «Rispetto alla tipologia tradizionale del “compianto”, che prevedeva Gesù al centro della scena, adagiato sulla terra nuda o su un canaletto, con i restanti personaggi disposti a semicerchio intorno a lui, Giotto introduce un’innovazione sostanziale. Il corpo del Cristo, raffigurato in posizione frontale, è spostato nettamente sulla sinistra, mentre muta la stessa disposizione di coloro che sono partecipi del compianto. La centralità concettuale del dipinto si esprime attraverso l’eccentricità geometrica» osserva Curi.
Passione, dunque, illumina l’architettura del pensiero. E, viceversa, tende l’orecchio al vagito della filosofia nel parto della vita. Si torna a Platone che dialoga intorno al pà¡thos quasi bio-chimico che produce il nostro lògos. Scandaglia contemporaneamente Simposio, Fedro e Teeteto: «Il compito del filosofo, il quale intenda coinvolgere anche altri nel processo di generazione della verità , non consiste nel mettere tra parentesi o cancellare la sfera dell’emotività , abitualmente giudicata irrazionale, o almeno extrarazionale. Esso consiste, invece, nel favorire l’instaurazione di una condizione in senso lato patetica, nella convinzione che solo da essa potrà risultare il nuovo» conclude, rafforzando l’inversione del senso comune sull’antagonismo fra due universi separati.
La parabola è compiuta connettendosi ad Heidegger. Di nuovo la filosofia non può prescindere dall’essere appassionata, tanto più nell’epoca della tecnica algida. Curi ravviva la prospettiva di un pensiero «emotivamente intonato» e con l’autore di Essere e tempo ammonisce: «Questa caratterizzazione si riferisce tanto alla convinzione che ogni pensiero essenziale deve essere fondato nella Grundstimmung, quanto all’idea che l’attività filosofica è sempre la risposta ad un appello, alla voce (Stimme) dell’Essere, il quale, solo perché si dona all’esperienza dell’uomo, lo rende capace di pensiero. Heidegger chiarisce in che senso sia possibile sostenere che la Grundstimmung costituisce il fondamento del pensiero, o, come si legge in un testo del 1955, l’arché della filosofia».
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