LA NUOVA SFIDA DI TARANTO

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E c’è l’equivoco di una disfida fra una famiglia di imprenditori e i loro dirigenti (cui il governo si associò fino a offuscare la distinzione) e una giudice fotoromanzata, fanatica per gli uni, eroica per altri – riconoscendo comunque gli uni e gli altri che abbiano finora, magistrati dell’accusa e giudice, parlato solo attraverso gli atti. L’equivoco fa passare come un aggiornato duello rusticano un trapasso d’epoca nel modo di lavorare e di abitare. Quello che si è chiamato sistema Ilva non si spiega solo con la trama di corruzioni e intimidazioni: la carne è debole, ma ad abbattere gli argini occorreva l’alibi di una cultura allegramente “industrialista” e un’abitudine al quieto vivere fra poteri, padronali, curiali, amministrativi e spesso di malavita, così radicata da rendere fin superflua la consapevole corruzione. Si dice amaramente, a Taranto: “si sono venduti pure gratis”. Così i colpi di scena che portano in carcere personaggi di rango pubblico, e il misto di sorpresa e scandalo che li accoglie (simulati ormai l’una e l’altro) oscurano la posta, che non è da magistrati: che si deve produrre, amministrare e fare politica e sindacato in altro modo. Rotta dall’avvento dei magistrati, dei custodi giudiziali, di carabinieri e Guardia di Finanza indipendenti, l’extraterritorialità  ha portato allo scoperto decenni di monnezze sepolte sotto asfalto o riversate nelle acque o gettate nelle fornaci: abusi di una tale portata dovrebbero essere riseppelliti e continuati? Fin qui è affare di magistrati altrimenti responsabili di una colossale omissione, altro che eccesso di zelo. Da qui in poi, tocca alla società  e le istituzioni altre, quelle che l’abitudine minaccia altrettanto e più della
corruzione.


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