by Sergio Segio | 13 Maggio 2013 7:02
È con questo appoggio che l’altra sera Michele Vietti ha censurato l’ennesimo attacco contro le toghe scatenato da Silvio Berlusconi. Sul rapporto politica-giustizia, che intossica e tormenta la nostra vita pubblica da vent’anni, il capo dello Stato è intervenuto infinite volte. E anche ieri ha dunque voluto far sapere come la pensa «per interposta persona». Spiegando — attraverso una nota informale, diffusa con la formula del «a quanto si apprende» — di riconoscersi con ciò che ha appunto detto il suo vice alla guida del Csm. Il quale aveva chiesto a tutti di «rispettare, apprezzare e difendere» i magistrati e, se davvero si vuole la «pacificazione», di non «appiccare incendi».
Napolitano, si sa, non ama esser trascinato nel battibecco infinito in cui è da tempo deragliata la politica italiana. Detesta che si enfatizzino le sue parole o che si costruiscano ricami impressionistici sui suoi silenzi, sia da parte dei giornali sia di qualche esponente di partito. Ma ieri Antonio Di Pietro (dopo le ultime elezioni, ormai un privato cittadino, peraltro) lo ha chiamato in causa in un modo per lui insopportabile. Obiettando che, dopo «l’atto eversivo» del Cavaliere a Brescia, «il presidente non può tacere», con l’inespressa ma calcolata insinuazione che possa esserci un dissenso di fondo tra lui e Vietti.
Che fare? Rispondergli direttamente avrebbe significato esporsi a un botta e risposta con il ruvido ex pm, che già in passato lo aveva accusato di usare contro Berlusconi una benevola «piuma d’oca» (ricevendo in replica dal Quirinale che l’educazione è comunque «sempre meglio che un vano rotear di scimitarra»). In realtà , a parte le intermittenti tensioni personali, ciò che sta a cuore a Napolitano oggi è preservare i primi passi del governo. Un esecutivo retto da una maggioranza assai fragile, che proprio i nuovi rimbalzi polemici contro pubblici ministeri e tribunali potrebbero mettere a rischio, approfondendo il già infido fossato d’incomunicabilità tra Pdl e Pd. E non sembra un caso che, nella tarda serata, il portavoce del premier, Gianmarco Trevisi, dal ritiro toscano dov’è riunito il gabinetto delle «larghe intese» abbia definito «inaccettabile» la sortita di Brescia, spiegando che quel che era andato in scena là alla presenza di parecchi ministri berlusconiani «non si può più ripetere perché le ricadute negative sul governo sono superiori alla sua stessa capacità di tenuta». Avvertimento, pure questo, che con ogni probabilità è stato concertato con il Quirinale.
C’è da aggiungere che in questo senso il capo dello Stato aveva osservato con parziale sollievo il fatto che, dopo l’ultima condanna, il Cavaliere avesse ripetuto di voler disgiungere la campagna sulle sue pendenze penali dal destino di Enrico Letta a Palazzo Chigi. Il centrodestra, insomma, per il momento non dovrebbe staccare la spina. Tuttavia, a Brescia il suo leader ha rinfocolato le vecchie tensioni con la promessa/minaccia di mettere in cantiere una serie di leggi di chiaro sapore ritorsivo, verso la magistratura. Alcune frange della quale — per inciso — potrebbero avere la tentazione di reagire, alzando il livello dello scontro. Alla faccia delle tante raccomandazioni bipartisan lanciate dal presidente della Repubblica nei mesi e negli anni scorsi, affinché politica e giustizia «non si percepiscano più come mondi ostili, guidati dal reciproco sospetto».
Marzio Breda
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