La lunga notte americana

by Sergio Segio | 23 Maggio 2013 6:41

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Lo smantellamento del cosiddetto contratto sociale newdealista e la crescita recente della polarizzazione sociale negli Stati Uniti affondano le radici nell’offensiva antioperaia e antisindacale lanciata da Ronald Reagan e da lui offerta al mondo imprenditoriale, nell’estensione della deregulation alla finanza e nell’adozione delle teorie neoliberistedi Milton Friedman e della Scuola di Chicago. L’offensiva ha subito un rallentamento al tempo della prima presidenza Clinton, ma le trasformazioni strutturali che la caratterizzavano – la deindustrializzazione, accompagnata dalle delocalizzazioni e ristrutturazioni tecnologiche delle aziende, e soprattutto la finanziarizzazione dell’economia – non si sono mai interrotte. Anzi, all’ultima fase della presidenza Clinton è imputabile l’atto decisivo a favore di Wall Street: l’abrogazione della legge Glass-Steagall, che dal 1933 imponeva la separazione delle banche d’affari da quelle commerciali. Negli anni di George W. Bush, tra la ripresa economica seguita alla breve recessione del 2001 e la nuova recessione iniziata alla fine del 2007, la produttività  è cresciuta del 15%, mentre le paghe orarie medie sono rimaste ferme (rispetto al 1973, la crescita della produttività  è stata dell’83%, quella dei salari pari a zero). Allo stesso modo, i profitti delle imprese sono cresciuti a velocità  doppia rispetto alle fasi di ripresa precedenti; non così i salari. I compensi complessivi dei lavoratori sono aumentati di meno di un quinto rispetto ai profitti e nel 2006 i profitti societari costituivano una fetta del reddito nazionale più grande che in tutti i sessant’anni precedenti, mentre i salari scendevano alla fetta più piccola dagli anni Trenta in poi.
L’esercito dei working poor
Nella recessione/depressione attuale le disuguaglianze sociali sono drammatiche. Quote crescenti di popolazione si sono impoverite e indebitate, fino alle recenti cadute precipitose dell’occupazione, dei redditi e delle condizioni di vita. Il numero dei disoccupati, dei sottoccupati e precari, dei poveri è altissimo e uno statunitense su sei vive in povertà . Il tasso ufficiale di disoccupazione (ora al 7,4%) era rimasto per buona parte del 2012 appena al di sopra dell’8%, dopo essere salito dal 5 al 10% tra il gennaio 2008 e il novembre 2009, nel pieno della crisi. Ma quelle percentuali dicono solo parte della verità . Si contano come disoccupati coloro che non lavorano ma sono attivamente in cerca di lavoro. Nel dicembre 2011 essi erano saliti a 13 milioni (da 6,8 nel 2007 pre-crisi). Non trovano spazio in quelle statistiche molte altre forme di disagio grave: quelli che vorrebbero un lavoro ma non lo stanno cercando nel momento in cui viene fatta la rilevazione statistica, perché non ce n’è dove loro vivono o perché sono scoraggiati, malati o assenti; quelli che ne vorrebbero uno a tempo pieno ma lo trovano solo a tempo parziale o determinato; quelli che non hanno neppure una casa (per registrarsi come disoccupati si deve dare un proprio indirizzo) e così via. Se si tiene conto di tutta la casistica i disoccupati e sottoccupati salgono a 24 milioni, il 15% delle forze di lavoro. Anche le durate della disoccupazione si sono allungate. Inoltre ci sono i giovani che non riescono neppure a entrare nel mercato del lavoro o vi entrano con impieghi saltuari e paghe molto più basse e meno protezioni rispetto ai lavoratori anziani, e che rimangono più a lungo – cosa nuova negli Stati Uniti – in famiglia con i genitori per mancanza di un proprio reddito autonomo. (…) È una vasta penombra quella che include la disoccupazione ufficiale, nella quale vive quel «quasi 40% di famiglie (che) hanno subito riduzioni di orario, di paga, di benefits», come scrive Paul Krugman in End This Depression now!.
Di fatto, sempre di più i poveri sono working poor, persone che un lavoro lo hanno, ma a cui l’occupazione non garantisce più l’uscita dalla povertà . La distruzione dei sindacati, in particolare industriali e del settore privato, oggi sotto al 7%, ha abbattuto sia le difese del reddito dei lavoratori che le organizzazioni avevano garantito fino agli anni Settanta, sia l’azione di traino verso l’alto anche dei salari dei non sindacalizzati. (…)
In base ai nuovi criteri elaborati dall’Ufficio del censimento per misurare più accuratamente livelli di reddito e diffusione della povertà , risulta che nel 2010 i poveri erano 49,1 milioni, pari al 16% della popolazione. E oltre un quarto degli afroamericani e degli ispanici vive in povertà . Inoltre, i dati relativi al 2010 indicano non solo un incremento dei poveri rispetto all’anno precedente, ma anche una preoccupante ampiezza dei «bassi redditi». (Nel 2011, la «soglia di povertà » era posta al livello di un reddito annuale lordo di 11.702 dollari per una persona; di 15.063 dollari per un nucleo familiare di due persone e di 23.201 dollari per un nucleo di quattro persone; un reddito è «basso» quando non supera il doppio della soglia di povertà ). Il numero degli statunitensi che rientrano nella categoria del basso reddito arrivava nel 2010 a 97,3 milioni, e se si sommano gli appartenenti alle due categorie il totale è di 146,4 milioni di persone, circa il 48% degli statunitensi.
Oltre il muro della ruggine
Uno studio della «Brookings Institution» indica che il numero dei residenti in «aree di estrema povertà » – in cui almeno il 40% degli individui vive al di sotto della soglia di povertà  – è cresciuto di un terzo tra il 2000 e il 2009. E rivela che il numero dei poveri è aumentato nei quartieri residenziali suburbani in proporzione doppia rispetto alle città , al punto che a livello nazionale oltre la metà  dei poveri delle aree metropolitane vive nei suburbs. È sintomatico che le zone dove la povertà  «alta» ed «estrema» siano il Midwest e i Grandi laghi, le città  della RustBelt, o «cintura della ruggine», in cui si sono prolungati gli effetti – socio-economici, demografici, urbanistici e ambientali, culturali – della deindustrializzazione iniziata nei decenni passati: Detroit, Flint, Youngstown, Toledo, Akron, Dayton, Buffalo, Cleveland, Chicago.
Inutile dire che la miseria dei poveri negli Stati Uniti non è la stessa dei poveri della Sierra Leone. Ma non c’è dubbio che uno statunitense che si trovi al di sotto o appena sopra la soglia della povertà  debba fare fronte a condizioni di vita difficili e a frustrazioni cocenti, in un paese in cui l’auto, il telefono, il televisore e il frigorifero sono quasi ovunque beni di prima necessità  (per chi, nella crisi, non abbia avuto la casa pignorata per insolvenza). In ogni caso, uno studio pubblicato nel 2012 dal «National Poverty Center» dell’Università  del Michigan, che impiega uno dei criteri con cui la Banca mondiale misura la povertà  estrema nel mondo (un reddito di due dollari al giorno a testa per ciascun componente di un nucleo familiare), registrava che 1.460.000 nuclei familiari – e 2.800.000 bambini – vivevano in quelle condizioni negli Stati Uniti nel 2011, con un incremento del 130% rispetto al 1996.
Molte delle analisi oggi disponibili sono in arretrato rispetto sia al peggioramento delle cose negli ultimi anni, sia al leggero miglioramento registrato nel corso del 2012. Tuttavia, il più recente tra i rapporti ufficiali su redditi e povertà  indica che tra il 2007 e il 2010 il reddito mediano delle famiglie è calato del 6,4% (ed è del 7,1% più basso rispetto al 1999).
Visto in una prospettiva un po’ più lunga, il quadro è ancora più chiaro. Secondo l’«Economic Policy Institute», tra il 1979 e il 2007, al 10% più ricco della popolazione statunitense è andato il 91,7% della crescita dei redditi (di cui il 59,9% all’1% dei super ricchi); mentre al restante 90% della popolazione è andato un magrissimo 8,6%. Letti da un’altra angolazione, i dati relativi allo stesso periodo dicono che i redditi del vertice assoluto della piramide sociale, l’1%, erano cresciuti del 224%, mentre quelli del 90% della base della piramide erano cresciuti del 5%. I dati del «Congressional Budget Office» presentano lo stesso quadro in termini leggermente diversi: nello stesso periodo, al netto delle tasse, i redditi reali dell’1% più ricco erano cresciuti del 275%, mentre quelli dell’80% alla base erano cresciuti in media del 29% (del 18% quelli del quinto più povero; del 40 quelli dei tre quinti immediatamente al di sopra).
Questi dati elementari danno conto di quanto sia pronunciata la polarizzazione sociale. La graduatoria in base al coefficiente di Gini relativo alla disuguaglianza nella distribuzione dei redditi delle famiglie nei diversi paesi del mondo, crescente a partire dall’indice 0,32 della Svezia (il più basso), colloca gli Stati Uniti al novantatreesimo posto, con indice 0,45 (nel 1997 era pari allo 0,41). E i dati sulla distribuzione della ricchezza e sulla suaconcentrazione nelle mani di pochisono anche più rappresentativi, perché in essi si riflettono tendenze e realtà  consolidate, largamente indipendenti dai cicli economici.
Il dominio di classe
Robert Reich, ministro del Lavoro con Clinton e docente a Berkeley, sottolinea che l’attuale è la fase di «maggiore concentrazione di ricchezza e redditi al vertice della società  dalla Gilded Age ottocentesca in poi, con i 400 americani più ricchi che possiedono tanto quanto i 150 milioni di persone» che costituiscono la metà  inferiore della piramide sociale del paese. Anche il plurimiliardario di simpatie obamiane Warren Buffett cercava di delineare in una intervista al «Washington Post» la fisionomia della fase attuale: «Se si guarda ai 400 massimi contribuenti statunitensi del 1992, il primo anno per il quale sono disponibili i dati statistici, essi raggiungevano in media i 40 milioni di dollari (di reddito) a testa. In questi ultimi anni, erano a 227 milioni a testa, più di cinque volte tanto. E nell’arco dello stesso periodo, le loro tasse sono scese dal 29 al 21% del reddito». Perché cambiamenti simili siano possibili si devono dare spostamenti decisivi nei rapporti di forza nella società . Di questo Buffett dava conto, alla fine dell’intervista, riprendendo quasi parola per parola una sua affermazione di qualche anno prima, che aveva fatto scalpore per la sua ruvida franchezza: «Ammessa la lotta di classe, i ricchi hanno vinto».
In sintesi: nel 2007, l’1% più ricco della popolazione possedeva il 34,6% della ricchezza complessiva, e il 19% immediatamente sottostante ne deteneva il 50,5; vale a dire che una sessantina di milioni di individui al vertice della piramide sociale ne deteneva l’85,1%, lasciando al restante 80% degli statunitensi – circa 240 milioni di persone – poco meno del 15% di tale ricchezza. Nel 1983, al 20% di vertice andava l’81,3% della ricchezza e ai quattro quinti inferiori il 18,7. E tra quella data e il 2009, secondo l’«Economic Policy Institute», poco meno del 92% dell’incremento di ricchezza è andato al 10% più ricco. Per il 30% della fascia centrale l’incremento è stato pari al 15,5%, mentre il 60% più povero si è impoverito del 7,5%.

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SCAFFALI

Materiali dalla «grande frattura statunitense»

Bruno Cartosio è una firma nota ai lettori de «il manifesto». Da sempre ha contribuito, assieme ad altri, a portare dentro questo giornale notizie, riflessioni, punti di vista provenienti dal «continente» americano, riuscendo spesso a smantellare luoghi comuni consolidati sugli Stati Uniti, come l’assenza di conflitto operaio e di un pensiero critico sul capitalismo statunitense. Autore di molti saggi sulla storia del movimento operaio da alcuni anni ha concentrato la sua attenzione sulle trasformazioni sociali che hanno caratterizzato gli Stati Uniti dagli anni Sessanta in poi. Il testo presentato in questa pagina è tratto dal volume, in uscita per le edizioni ombre corte, su «La grande frattura. Concentrazione della ricchezza e disuguaglianze negli Stati Uniti» (pp. 102, euro 11).

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