La Corte dei conti boccia l’austerity «Ci è costata 230 miliardi di euro»

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ROMA. No, l’austerity proprio non va. Ieri un attacco al rigore ferreo che finora ha retto l’Europa (ma che, come si sa, scricchiola) è arrivato dalla Corte dei conti: il presidente Luigi Giampaolino ha accusato l’austerità  adottata finora dai governi europei di essere «una rilevante concausa dell’avvitamento verso la recessione». Di più, Giampaolino ha fatto una notazione in qualche modo politica rispetto al governo Letta, rilevando come il «passaggio alla nuova legislatura sembra proporre un primo tentativo di operare in discontinuità  da una politica di bilancio che, a partire dall’estate 2011, ha dovuto fare affidamento su consistenti aumenti di imposte, nonostante le condizioni di profonda recessione in cui versava l’economia». Insomma, si sarebbe imboccata una via diversa rispetto a quella – strettissima – scelta allora da Mario Monti.
Presentando il rapporto 2013 sul coordinameto della Finanza pubblica, il presidente della magistratura contabile ha fatto i conti della crisi in Italia tra il 2009 e il 2013: «La mancata crescita nominale del Pil – ha spiegato – ha superato i 230 miliardi e il consuntivo di legislatura ha mancato il conseguimento del programmato pareggio di bilancio per 50 miliardi» come a dire il 3% del Pil (il tetto massimo per il deficit fissato dall’Unione europea). Per questo Giampaolo ha chiesto all’Europa più crescita: «All’Italia serve crescere, servono stimoli. Non deroghe per spendere di più».
Anche perché, ha continuato Giampaolino, «la perdita permanente di prodotto si è tradotta in una caduta del gettito fiscale, ma non in una riduzione della pressione fiscale». Insomma, meno incassi per lo Stato, ma non per questo meno pressione fiscale sui cittadini (è ovviamente l’effetto immediato di una mancata crescita del Pil a pressione fiscale immutata)
«In Europa – ha proseguito il presidente della Corte – l’emergenza della decrescita e della disoccupazione appare oggi acquisire quanto meno un rilievo analogo a quello assegnato al percorso di riequilibrio di disavanzi e debito pubblico». Per Giampaolino, tuttavia, il «livello crescente dello stock di debito pubblico non consente di interpretare in modo men che rigoroso il sentiero di risanamento. Sarebbero gli stessi mercati a punire» questa scelta. In questo senso la riduzione della pressione fiscale è un obiettivo «non facile da coniugare con il rispetto degli obiettivi europei», e però è possibile «l’equità  distributiva del prelievo».
«Il 2012 ci consegna un quadro molto fragile non solo in termini di crescita ma anche di finanza pubblica», ha aggiunto Giampaolino: «L’Italia presenta un andamento corrente della propria finanza pubblica nettamente migliore rispetto ai paesi in crisi e anche rispetto alle altre grandi economie europee. Ma la situazione cambia allorchè si guardi all’altro parametro di Maastricht, il rapporto fra debito e prodotto: un indicatore che colloca l’Italia tra i paesi in crisi e distante dagli altri grandi paesi, Spagna inclusa».
Infine, per quanto riguarda i pagamenti della Pubblica amministrazione dei propri debiti verso le imprese, la Corte dei conti evidenzia «un comportamento amministrativo, la cui devianza patologica non trova riscontro in altri Paesi europei: negli ultimi anni i tempi di pagamento hanno superato in Italia, mediamente, i 180 giorni, a fronte dei 65 giorni della media europea».


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