by Sergio Segio | 15 Maggio 2013 7:34
Quell’edificio insicuro, otto piani di cui tre abusivi, già mostrava crepe sui muri ma fino al disastro aveva continuato a sfornare abiti, jeans e magliette per le aziende del ricco Occidente. Anzi ricchissimo, se paragonato a questo Paese tra i più poveri al mondo, dove il salario minimo è di 38 dollari e nessuno o quasi si è mai preoccupato delle condizioni della mano d’opera. Purché i costi restassero bassi per le aziende americane ed europee del low cost, che ogni anno versano al Paese 20 miliardi di dollari, ma che altrove pagherebbero ben di più. Purché restassero quei quattro milioni di posti di lavoro, secondo il governo di Dacca che combatte i sindacati locali e le loro richieste di maggior sicurezza.
Ieri, mentre la preghiera islamica chiudeva la lunga fase delle ricerche dei corpi, un’altra se ne apriva con prospettive che fanno sperare. Per la prima volta, proprio sulla spinta della più grave tragedia nella storia di questo settore, i grandi marchi dell’abbigliamento che producono in Bangladesh hanno accettato un protocollo che garantisce la sicurezza delle fabbriche impegnando i firmatari a rispettare norme e comportamenti «responsabili». Non tutti, però. L’intesa promossa dai sindacati internazionali IndustriaAll e Uni Global, con il coordinamento dell’Ilo (l’Organizzazione per il lavoro dell’Onu) e il sostegno di altri «stakeholder» governativi e non, è stato firmato dagli europei, che acquistano il 60% dei vestiti prodotti nel Paese. Quasi tutti gli americani si sono chiamati fuori.
Ci sono comunque nomi importanti: la svedese H&M (primo acquirente di abiti in Bangladesh), seguita dall’olandese C&A, dalle britanniche Tesco, Marks&Spencer e Primark, poi dalla spagnola Inditex che controlla Zara, e quindi dall’italiana Benetton e da un’altra spagnola, Mango. «L’accordo prevede per i prossimi cinque anni l’adozione di misure — ispezioni, progetti di training e investimenti — che porteranno concretamente a garantire anche la sicurezza degli edifici dove operano produttori bengalesi del settore, in termini di solidità strutturale e di sicurezza antincendio», ha precisato ieri l’amministratore delegato di Benetton, Biagio Chiarolanza. Nessun dettaglio tecnico, per ora: «Sono principi guida che porteranno poi a un piano operativo, ma non sono solo parole», precisa un portavoce del gruppo italiano, che in Bangladesh produce il 2-4% dei suoi vestiti. «Al contrario, è fondamentale che siano principi condivisi, è il risultato dell’unione di vari tavoli che da tempo operavano separati con pochi risultati. Un simile impegno non può certo restare sulla carta».
Mancano i dettagli appunto, se non per la costituzione di un «team di controllo» su edifici e laboratori che porterà alla chiusura di quelli non a norma: già il governo di Dacca ha fatto sapere di avere chiuso qualche decina di fabbriche (ma in tutto sono 5 mila). Eppure anche quei principi non sono stati accettati dagli americani, con l’eccezione della Pvh (a cui fanno capo Calvin Klein e Tommy Hilfiger), già impegnata in un simile accordo «pilota» dal 2012 con la tedesca Tchibo.
WalMart, secondo acquirente di abbigliamento nel Paese, ieri ha annunciato che «non c’è niente da annunciare». Dopo la tragedia del Rana Plaza aveva ribadito l’intenzione a non seguire la Disney, che ha abbandonato il Paese, e stretto i controlli nelle «sue» fabbriche, abbandonando quelle insicure. Ma riteneva e ritiene che i vincoli dell’accordo, soprattutto in caso di dispute legali, siano troppo pesanti. La stessa posizione di Gap, che più diplomaticamente si è detta «prontissima» a firmare l’intesa se però quegli obblighi saranno tolti. Sempre che le proteste in corso negli Stati Uniti contro i suoi negozi non spingano anche il gruppo californiano alla marcia indietro.
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