by Sergio Segio | 20 Maggio 2013 15:47
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Il 20 maggio del 1983, trent’anni fa, i ricercatori Robert Gallo e Luc Montagnier pubblicarono sulla rivista scientifica Science due studi indipendenti sull’identificazione di un nuovo retrovirus ritenuto la causa dell’AIDS, la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita. La loro scoperta fu fondamentale per approfondire le conoscenze sulla malattia, identificata anni prima e alla base di una preoccupante epidemia nei primi anni Ottanta. Dal giorno della pubblicazione delle ricerche a oggi sono cambiate molte cose, fortunatamente in meglio, per quanto riguarda le terapie che contrastano il virus, ma nonostante gli enormi sforzi i ricercatori non sono ancora riusciti a trovare un vaccino né una cura contro l’infezione virale che causa l’AIDS.
La malattia fu osservata clinicamente per la prima volta negli Stati Uniti nel 1981. I primi casi erano di pazienti tossicodipendenti od omosessuali, che non davano però segno di avere gravi problemi al loro sistema immunitario. Avevano sintomi riconducibili a quelli della polmonite da funghi, che però di solito compare nei soggetti con basse difese immunitarie. Emersero poi casi di cancro alla pelle molto raro, anche in questo caso con cause difficili da spiegare. L’epidemia raggiunse in pochi mesi livelli consistenti, tanto da mettere in allarme i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC), l’organismo che negli Stati Uniti si occupa dei contagi e delle possibili epidemie che si potrebbero verificare nel paese.
L’organizzazione selezionò un gruppo di esperti per monitorare l’epidemia. All’inizio le conoscenze sulla malattia erano limitate e non si sapeva nemmeno come definirla e chiamarla. Furono utilizzate diverse definizioni, tra cui la più nota fu per un certo periodo “la malattia delle 4H”, perché si pensava riguardasse solamente gli haitiani, gli omosessuali (“homosexuals” in inglese), gli emofiliaci (“hemophiliacs”) e gli eroinomani (“heroin users”). Solo un anno dopo, la comunità scientifica decise che fosse il caso di usare un termine più neutro e che descrivesse meglio la malattia, che nel frattempo si era scoperto non era isolata solo alla comunità gay. Nell’estate del 1982 fu scelto l’acronimo AIDS e i principali organismi di controllo sanitari in giro per il mondo iniziarono a utilizzarlo.
Il passo avanti più importante nella storia iniziale della ricerca sull’AIDS si realizzò nei mesi seguenti, grazie agli studi e alle ricerche di Robert Charles Gallo, direttore del laboratorio di biologia cellulare dei tumori del National Cancer Institute di Bethesda (Maryland), e di Luc Montagnier, del laboratorio di retrovirologia dell’Istituto Pasteur di Parigi in cui lavorava Franà§oise Barré-Sinoussi, che mesi dopo la pubblicazione dei primi studi su Science avrebbe osservato per la prima volta il virus al microscopio nei tessuti di una persona infetta. Sul numero del 20 maggio del 1983 di Science, Gallo scrisse che il suo team di ricerca aveva identificato un virus da un paziente malato di AIDS, e che era molto simile a una classe di retrovirus oncogeni (HTLV), cioè che provocano alcuni tipi di tumore. Il nuovo virus fu chiamato HTLV-III.
Sullo stesso numero di Science, Montagnier pubblicò un articolo in cui diceva di avere isolato un virus da un paziente che aveva alcuni dei classici sintomi riconducibili all’AIDS. Ma secondo il gruppo di ricerca dell’Istituto Pasteur il virus non era di tipo HTLV ed era da definirsi come “virus associato a linfoadenopatia”. Solo dopo tre anni di studi e approfondimenti si sarebbe scoperto che i virus identificati separatamente dai due gruppi di ricerca erano in realtà la stessa cosa. E solo in quel momento si arrivò alla definizione del nome HIV, che ancora oggi identifica il virus ritenuto alla base dell’infezione da AIDS.
Da anni si dibatte chi tra Gallo e Montagnier abbia avuto il merito effettivo di avere scoperto per primo l’HIV. Nel 2008 il Comitato dei premi Nobel ha insignito Montagnier e Barré-Sinoussi[2] di una parte del Nobel per la Medicina “per la scoperta del virus da immunodeficienza”, lasciando fuori Gallo. Lo stesso Montagnier dice da tempo di essere rimasto sorpreso dalla decisione del Comitato dei Nobel, e ha più volte ricordato che Gallo contribuì in maniera determinante all’identificazione del virus.
In occasione dei trent’anni della pubblicazione dei primi studi che associavano uno specifico retrovirus all’AIDS, l’Istituto Pasteur ha organizzato a Parigi un convegno che inizierà martedì 21 maggio, in collaborazione con i National Institutes of Health, l’agenzia del ministero della Salute statunitense specializzata nella ricerca biomedica. Il convegno sarà l’occasione per fare il punto sull’AIDS, sulla sua diffusione e sugli obiettivi fino a ora mancati dai ricercatori nel difficile studio di un vaccino o di una cura contro la malattia.
La ricerca medica ha portato alla produzione di farmaci antiretrovirali molto efficaci, che riescono a mantenere sotto controllo la proliferazione del virus nelle persone affette da HIV. Questi farmaci riducono la possibilità di contagio e impediscono, per esempio, che una donna possa trasmettere il virus al proprio figlio durante la gravidanza. Eppure molto resta ancora da fare per quanto riguarda le soluzioni che risolvano il problema a monte, come l’eliminazione del virus o soluzioni che gli impediscano di attecchire nell’organismo.
Si stima che fino a ora la ricerca abbia speso almeno 8 miliardi di dollari per studiare un vaccino contro il virus dell’HIV. Sono stati realizzati diversi trial clinici, ma anche le soluzioni che sembravano essere più promettenti si sono arenate nel corso dei test, rivelandosi inefficaci e inutilizzabili. Il problema, spiegano i ricercatori, è che l’HIV muta di continuo e molto rapidamente il suo codice genetico, cosa che fino a ora ha reso impossibile la produzione di un singolo vaccino. Alcuni pazienti producono anticorpi in grado di neutralizzare diverse varianti dell’HIV, ma per gli scienziati sfruttare queste informazioni per produrre un vaccino non è semplice.
Alcuni vaccini si sono rivelati efficaci, ma in un numero ancora molto ristretto di casi e ben al di sotto del 50 per cento di contagi evitati, margine minimo per dichiarare l’effettiva affidabilità di un vaccino. Alcuni trial clinici sono ancora in corso e altri ancora partiranno entro la fine dell’anno, ma c’è un generale scetticismo sulla possibilità che possano portare a qualche risultato concreto. Paradossalmente, oltre alla prevenzione l’arma migliore potrebbe essere la cura della malattia e non un farmaco per evitare di contrarla.
Barré-Sinoussi nel 2010 ha messo a punto un sistema che, almeno in linea teorica, serve per attirare le “riserve” del virus HIV che si trovano negli organismi contagiati. Semplificando, quando viene avviata una terapia con antiretrovirali, il virus si nasconde in alcune cellule e se ne resta lì in attesa. Quando termina l’effetto degli antiretrovirali, il virus torna vitale e riprende a diffondersi attraverso la circolazione sanguigna. I ricercatori vogliono capire con precisione dove si nasconda il virus, come faccia a rimanere nascosto e quindi come riuscire a stanarlo. In alcuni trial clinici realizzati in Australia i ricercatori hanno utilizzato un farmaco che sembra faccia uscire dal nascondiglio il virus, ma è ancora presto e saranno necessari anni prima di ottenere sviluppi concreti con questo nuovo sistema.
Benché se ne parli molto meno rispetto agli anni Novanta, l’epidemia di AIDS continua ed è – ancora oggi – una delle malattie sessualmente trasmissibili più diffuse. Si stima che in tutto il mondo ci siano almeno 34 milioni di persone affette da HIV, la maggior parte di queste in Africa, e che dall’inizio dell’epidemia siano morte almeno 30 milioni di persone.
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