Il Pkk in Iraq, Baghdad protesta

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Per il movimento indipendentista, il governo turco sta cercando di coprire il massacro Candele accese in diverse province della Turchia. In questo modo, i kurdi del Congresso Democratico del Popolo (Hdk) hanno ricordato le vittime degli attentati di Reyhanli, avvenuti l’11 maggio, e hanno chiesto al governo turco la verità  sul massacro. Due deputati dell’Hdk si sono recati sul posto per porgere le condoglianze agli abitanti, convinti che la responsabilità  non sia del governo di Damasco, ma dell’Esercito siriano libero. L’Hdh ha accusato il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), al potere in Turchia dal 2002, di essere all’origine delle violenze: «Sono le politiche di guerra condotte dall’Akp contro la Siria ad aver provocato questo dolore alla popolazione. Scenderemo in strada per dire no a queste scelte», hanno dichiarato i deputati. Quindi hanno «esortato il governo Akp a cessare la sua politica di sostegno all’Esercito libero siriano che alimenta la guerra civile in Siria», hanno invitato «tutte le popolazioni in Turchia a condividere il dolore di quella di Reyhanli e a dimostrare solidarietà  verso le nostre manifestazioni per finirla con le politiche di guerra». Per l’Hdk, il governo turco sta cercando di coprire il massacro, censurandolo «come ha fatto con quello di Roboski». Il 28 dicembre del 2011, gli aerei da guerra turchi hanno ucciso 34 civili kurdi, ma la Commissione parlamentare per i diritti umani ha recentemente concluso che non c’è stata alcuna azione deliberata da parte del governo, e la Piattaforma per la Memoria Sociale, che assiste le famiglie delle vittime, continua a protestare sotto il parlamento. Intanto, i primi gruppi di combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sono arrivati in Iraq. Hanno attraversato a piedi il confine nel nord, accolti da altri guerriglieri del Pkk istallati nel Kurdistan iracheno. Baghdad ha denunciato «una violazione della propria sovranità ». Il governo federale iracheno ha anche manifestato l’intenzione di protestare presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. I kurdi – tra i 25 e i 37 milioni – sono dispersi in quattro paesi del Medioriente, l’Iran, la Turchia, l’Iraq e la Siria. In Iraq, nell’entità  politica federale che ne ha riconosciuto l’autonomia, sono circa 5 milioni. Due i loro partiti principali, il Partito democratico del Kurdistan (Pdk), che ha come leader Massud Barzani, presidente della regione, e l’Unione patriottica del Kurdistan (Upk), diretto da Jalal Talabani, vicepresidente dell’Iraq. Tuttavia, dopo tanti fallimenti – tutti scontati dal movimento kurdo – questa volta sembra ben avviato il piano di pace stabilito tra il primo ministro turco Recep Erdogan e il leader indipendentista Abdullah Ocalan, all’ergastolo sull’isola di Imrali. Le trattative si sono formalizzate il 21 marzo con il cessate il fuoco dichiarato da Ocalan e l’inizio di una progressiva smobilitazione della guerriglia kurda. La seconda fase del piano prevede la messa in sicurezza dei circa 5.000 combattenti, che hanno preso le armi nel 1984 e che hanno scontato gran parte delle perdite durante il conflitto (45.000 morti). In Siria, si trovano 2 milioni di kurdi, principalmente nel nord-est del paese, e nel corso della crisi hanno preso il controllo di importanti zone. L’egemonia politica è esercitata dal Partito dell’unione democratica (Pyd), vicino al Pkk. Insieme al Consiglio nazionale kurdo, che riunisce sedici partiti ed è vicino a Barzai, ha fondato il Comitato supremo del Kurdistan. Nonostante le differenze interne, i kurdi siriani pesano e contano di dire la loro.


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