Il mondo di Onegin
Dietro le malinconie del romanticismo viene raccontato un momento storico Torna il festival Vie dopo un’edizione, quella della primavera scorsa, dimezzata dal terremoto che ha devastato queste terre emiliane. Ed è certo un segno di attenzione, se non può esservi risarcimento, l’allargarsi geografico della manifestazione in diversi paesi colpiti dal sisma – anche se questa scelta inevitabilmente contraddice la concentrazione di tempo e di spazio che è caratteristica essenziale per un festival teatrale. Tornano, accanto a nuove proposte, anche presenze artistiche già passate per queste Vie e non sempre lasciando un buon ricordo, come quel Pascal Rambert scelto per l’apertura del festival. Ma ricordando appunto il precedente Clà´ture de l’amour , spettacolo noioso e inutile quanto pretenzioso come sovente capita ai francesi (ed ebbe pure un’edizione italiana!), viene spontaneo rispondere come lo scrivano Bartleby di Melville: preferirei di no.
Non ci si può rifiutare invece a uno spettacolo di Alvis Hermanis, anche se il grande e pure ancora giovane regista lettone non è sembrato in grado di rinnovare, più di recente, la sorpresa delle prime memorabili creazioni. Qui però è un bel colpo al cuore per lo spettatore affezionato, entrando nel teatro Storchi, ritrovarsi di fronte quell’ambiente sviluppato tutto per il largo, poco profondo, senza divisioni interne se non gli spazi idealmente contrassegnati dai numerosi arredi che si allineano sul fondo, come se quelle ipotetiche stanze fossero accomunate da un’unica geografia oltre che da un’unica storia. Tornano in mente l’appartamento collettivo dei vecchi di Long Life , l’incongrua comune sessantottina (giacché immaginata in una Riga ancora sovietica) di The sound of silence – spettacoli meravigliosi capaci di emozionare senza una sola parola. Ecco anche qui una sfilata di letti, tavoli, divani e poltrone d’epoca, una libreria piena di libri, la porta che si apre un po’ per lasciar passare di traverso una testolona riccioluta e dalle folte basette. Un attimo di incertezza, di fronte a tutto quel pubblico che lo guarda o magari invece per accertarsi che nella stanza non ci sia nessuno, per poi balzare all’interno piegato sulle ginocchia. E saltare sui mobili, grattandosi la testa o sbucciando una banana, prima di assumere lentamente la postura dell’homo erectus se non proprio ancora sapiens.
Era bruttissimo Puskin, lo paragonavano a una scimmia, dice appena ha assunto una posa più umana e composta. E tuttavia ebbe tantissime amanti, come per altro era tipico dell’aristocrazia dell’epoca: e il catalogo dei nomi femminili che comincia a enumerare si arricchisce dei ritratti delle giovani donne proiettati sulla parte più alta della parete di fondo, come le carte di un solitario. Il ritratto dello scrittore russo sta invece appeso al centro della parete, isolato e a tratti anche investito da un raggio di luce, un po’ come quello del sovrano nelle Meninas di Velà¡zquez. Onegin. Commentaries , dice il titolo dello spettacolo. E in due parole, con quel punto nel mezzo, dice tutto. C’è in gioco un testo, con una storia, appunto l’ Evgenij Onegin di Puskin, e insieme l’atto reso esplicito del raccontarlo – che poi vuol dire raccontare un mondo, un momento storico. Un po’ del resto come avveniva in Sonja , altro bellissimo lavoro di Hermanis che per la sua struttura più agile continua a girare felicemente per i nostri palcoscenici. Ma mentre lì, in Sonja , è il gioco scenico a prendere il sopravvento, qui a dominare è il commento , come da titolo, mentre l’azione è compressa fin quasi a un grado zero. Uno dopo l’altro, seguendo il filo ininterrotto del racconto, entrano gli interpreti e prendono posto, ciascuno come portavoce per così dire di un proprio personaggio, senza porre distinzione fra quelli storici e quelli del romanzo in versi.
L’amico di Puskin Tolstoj detto «l’americano», stessa famiglia del più famoso scrittore. Il dandy Onegin e il poeta Lenskij suo fraterno amico. Le sorelle Olga e Tatiana protagoniste della vicenda sentimentale che porterà i due a sfidarsi a duello, singolare premonizione di quello ugualmente futile in cui verrà ucciso lo stesso Puskin. E ogni nuovo ingresso, ogni passo del romanzo (recitato in russo dagli attori dello Jaunais Rigas Teatris, che per il resto usano invece la loro lingua con un voluto effetto di distanziamento) è l’occasione per una digressione, letteraria e ancor più culturale nel senso più ampio, chiamando in soccorso all’occorrenza le parole del semiologo Jurij Lotman ma soprattutto una assai vasta iconografia che, proiettata in quella zona superiore della scena, si fa essa stessa drammaturgia – come in Kaputsvetki le fotografie del cimitero di Riga. Per far vedere, dietro al ritratto dell’artista da giovane scimmia, ciò che di quel mondo ottocentesco la letteratura occulta.
Così dietro il malinconico spleen del dandy e i moti affettivi del romanticismo vengono fuori i costumi sessuali dell’epoca, la concezione dell’onore dell’aristocrazia ma anche la sua abitudine di non lavarsi mai. Fin qui è ciò che di Onegin. Commentaries si può riferire. Cioè il fatto strutturale dello spettacolo. Ciò che invece sfugge è il suo essere teatro, con tutto quel che a livello emozionale comporta questa parola, giacché la scelta non ben considerata di fornire una traduzione simultanea in cuffia lo annega in un flusso indifferenziato di parole pasticciate, senza rapporto con la scena. Davvero un peccato.
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