Il «terzo pilastro» per garantire l’assistenza in tempo di austerity

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Ecco il patrimonio da cui partire per fondare il nuovo sistema del welfare in Italia, secondo un progetto promosso dalla Fondazione Roma e il Centre for the Anthropology of religion and cultural change dell’Università  Cattolica del Sacro Cuore e presentato ieri a Roma. «Il welfare, che fin dal 1800 è stata la caratteristica distintiva dell’Europa rispetto al mondo sviluppato — spiega il presidente della Fondazione, Emmanuele Francesco Maria Emanuele — non esiste più, vittima delle politiche di austerity imposte dai governi. Ma la crisi può rappresentare una preziosa occasione di crescita e cambiamento, mettendo in campo le risorse di quello che io chiamo Terzo pilastro, una galassia di soggetti diversi che costituisce un antico patrimonio, tutto italiano: dobbiamo imparare a destatalizzare socializzando». L’indagine mette in evidenza i quattro motivi della crisi del sistema sociale in Italia: innanzitutto «i servizi offerti non raggiungono lo scopo, dal momento che spendiamo male», spiega il professore di Sociologia della Cattolica, Mauro Magatti, che ha curato la ricerca. Si interviene poi troppo tardi: «Più per mettere una pezza che per prevenire»: senza una chiara idea di investimento sulle persone si può avere solo un «welfare riparativo e non generativo», afferma Magatti. In terzo luogo, il nostro è un sistema che tende ad essere «inadeguato a fronteggiare i nuovi rischi e bisogni sociali». Infine, «il welfare viene visto come il luogo dello spreco e della richiesta di risorse dello Stato», mentre dovrebbe diventare «il posto dove ricostituire i legami sociali». A questi problemi va aggiunto il taglio delle risorse, ma anche «la frantumazione dei valori che prima costituivano le basi dell’Italia: famiglia, scuola, religione, politica», come sottolinea il presidente del Censis Giuseppe De Rita. Ecco quindi che l’unica via d’uscita è l’impresa sociale, perché fortunatamente «questa è la società  della conoscenza e non delle conoscenze», in cui non «vale chi è raccomandato ma chi sa portare avanti un progetto concreto in tutti i campi, anche in quello sociale», conclude De Rita con tono fiducioso.
Qualche esempio concreto? Il caso della Cooperativa Apriti Sesamo del Consorzio Nausicaa di Roma: una «impresa sociale di comunità » che lavora nei servizi alla famiglia e ai bambini in interazione con le amministrazioni. Oppure l’incubatore sociale creato dalla Caritas diocesana di Palestrina, che avvia progetti che creano posti di lavoro. O ancora, il Punto comune allestito dal comune di Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo: uno sportello unico a cui possono rivolgersi tutti, dalle famiglie ai neo imprenditori. «Ma tanti settori restano ancora inesplorati», come elenca Johnny Dotti, presidente di Welfare Italia: il mercato delle case pignorate dalle banche per sofferenze bancarie, che potrebbero essere usate per fondazioni immobiliari sociali, «un affare che vale tre volte l’Imu»; il settore delle badanti, un milione di piccole imprese familiari spesso sommerse «che valgono 10 miliardi»; il welfare aziendale e integrativo, che «vale 14 miliardi». Perché il welfare, conclude Dotti, ha «un valore sociale, ma anche economico».


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