IL GRANDE CORRUTTORE

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SI TORNA in piazza, come ai bei tempi. Tutti «con Silvio», che nei giorni festivi rispolvera la mimetica e l’elmetto, smettendo i panni inconsueti e severi dello Statista indossati nei giorni feriali. Contro le «toghe rosse». Contro la «gogna a regola d’arte». Contro «le procure d’assalto», gli «inquisitori accaniti», i «grandi orologiai» che regolano sapientemente le loro lancette sulle fortune del Cavaliere. Soprattutto, contro quest’ultima «sentenza impresentabile » nel processo d’appello sui diritti cinematografici Mediaset, che conferma una condanna pesantissima a carico di Silvio Berlusconi.
Di fronte all’ennesima, grave disavventura giudiziaria del suo leader, la grancassa della destra produce il solito rumore. Un fragoroso profluvio di stilemi indignati e di frasi già  fatte, che servono a confondere e a nascondere. Tutti si chiedono «cosa succede», adesso che l’ossessione giudiziaria del capo del Pdl minaccia la già  fragilissima esistenza del «governo di servizio» guidato da Enrico Letta. Ma nessuno si chiede piuttosto «cosa è successo », per giustificare una sanzione così devastante a carico del principale «azionista di riferimento» della strana maggioranza tripartisan.
QUELLA che si deve confondere, agli occhi dell’opinione pubblica, è l’anomalia storica di un imprenditore che ha scelto di «scendere in campo» anche per sottrarsi al giudice penale, con la pretesa di riconoscere come suo unico giudice naturale il popolo sovrano. Oggi, complice una sinistra distrutta e disarmata, Berlusconi azzarda una sottile operazione culturale: risorgere come «uomo di Stato», attraverso la «grande politica » delle larghe intese, che monda ogni peccato e depotenzia ogni reato. Solo in questo modo, come teorizza Giuliano Ferrara, potrà  «obliterare ogni valore morale delle condanne che lo riguardano».
Quella che si deve nascondere, agli occhi dei cittadini-elettori, è la responsabilità  penale di un imputato «eccellente» e tuttora innocente (fino al giudicato definitivo) ma che ha già  subito 17 processi, 14 assoluzioni (10 per effetto delle leggi ad personam) e 3 condanne, compresa l’ultima dell’altroieri. Oggi, complice la propaganda egemone e il nuovo clima di «unità  nazionale», Berlusconi ritenta l’audace colpo: banalizzare la verità  dei suoi reati dietro la cortina fumogena della «persecuzione giudiziaria». Solo in questo modo si può cambiare il nome alle cose, sollevando un polverone intorno alla forma (una «sentenza folle basata solo sull’eliminazione dell’avversario per via giudiziaria ») per coprire la sostanza (ll contenuto di quella stessa sentenza, che lo inchioda a 4 anni di carcere e 5 anni di interdizione).
E allora vale la pena di rileggerla, questa pronuncia della Corte d’Appello di Milano, che ricalca e conferma quella di primo grado dell’ottobre 2012. Vale la pena di capire cosa c’è dietro quella condanna per «frode fiscale». Detta così sembra poco, e invece rivela un sistema di «gestione aziendale» che, attraverso la provvista estera e i fondi neri, è quasi sempre al servizio della «corruzione politica». Ieri a vantaggio di Craxi e di Metta. Oggi (verrebbe da pensare) del faccendiere Lavitola o del senatore De Gregorio.
LA FRODE FISCALE: PERCHà‰ SERVONO I FONDI NERI
Al Cavaliere, per il periodo 2002 e 2003, viene contestata una frode al fisco di circa 7 milioni di euro, per l’acquisto di diritti su film e prodotti tv comprati e rivenduti, a prezzi gonfiati, tra società  offshore controllate dalla stessa Mediaset. I pm De Pasquale e Spadaro avevano scoperto operazioni fraudolente per 370 milioni di dollari. All’inizio del processo Berlusconi era infatti indagato
anche per appropriazione indebita e falso in bilancio. Ma le leggi ad personam hanno dato buoni frutti: due capi d’imputazione sono caduti, grazie alla prescrizione accorciata. L’entità  delle cifre si è ridotta. Ma lo schema scoperto e descritto dai magistrati, nelle motivazioni della sentenza di primo grado, è chiarissimo.
«Le imputazioni descrivono un meccanismo fraudolento di evasione fiscale sistematicamente e scientificamente attuato fin dalla seconda metà  degli anni ’80 nell’ambito del gruppo Fininvest, connesso al cosiddetto “giro dei diritti televisivi”… I diritti di trasmissione televisiva, provenienti dalle majors o da altri produttori e distributori, venivano acquistati da società  del comparto estero e riservato di Fininvest, e quindi venivano fatte oggetto di una serie di passaggi infragruppo, o con società  solo apparentemente terze, per essere poi trasferite ad una società  maltese che a sua volta li cedeva, a prezzi enormemente maggiorati, alle società  emittenti. Tutti questi passaggi erano privi di qualunque funzione commerciale… ».
Dunque, dagli atti si evince un dispositivo contabile codificato e finalizzato a produrre denaro fittizio. Secondo i magistrati, Berlusconi ne era «il dominus indiscusso». «Il cosiddetto “giro dei diritti” si inserisce in un contesto più generale di ricorso a società  offshore anche non ufficiali ideate e realizzate da Berlusconi avvalendosi di strettissimi e fidati collaboratori quali Berruti, Mills e Del Bue». La «riferibilità » al Cavaliere della «ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità  di denaro separato da Fininvest ed occulto», secondo la sentenza, è «pacifica». Com’è altrettanto pacifico che l’intero meccanismo sia stato ideato «per il duplice fine di realizzare un’imponente evasione fiscale e di consentire la fuoriuscita di denaro dal patrimonio Fininvest/Mediaset a beneficio di Berlusconi ».
Il Cavaliere è «l’ideatore ». Ma anche il «beneficiario » e, come direbbe Ghedini, «l’utilizzatore finale ». Ma a cosa è servito questo «disegno criminoso », che secondo i giudici dimostra la «naturale capacità  a delinquere» del capo della destra italiana? Che uso è stato fatto, nel corso del tempo, di questo fiume sommerso di soldi finiti nella disponibilità  dell’ex premier anche dopo la sua discesa in campo del ’94? La risposta, in buona parte, sta ancora negli atti giudiziari e nelle sentenze. Non solo nell’ultima, che riguarda i diritti tv. Ma anche nelle precedenti, e non meno inquietanti.
ALL IBERIAN E CRAXI, MILLS E LE MAZZETTE AI GIUDICI
Il «motore» della macchina che sforna i fondi neri, come spiega la Corte d’appello, è custodito nel «comparto estero di Fininvest», cioè nelle società  offshore, situate in Paesi come le Isole Vergini, il Jersey e le Bahamas… sui conti delle quali… far transitare il denaro…». L’esistenza di queste società  è «documentalmente provata». Century One e Universal One, Principal Communication e Principal Network. Edsaco e Amt. Medint e Lion. Poi Arner e Ims. Una rete di spa più o meno occulte. Le prime fanno parte del «Fininvest Group B», cioè il «comparto estero riservato» sul quale la casa madre del Cavaliere ha scaricato, dalla fine degli anni ’80, gli «affari sporchi».
Non lo dice solo la sentenza della Corte d’appello dell’altroieri. Ma l’intera parabola processuale di Berlusconi, che testimonia l’esistenza di un polmone finanziario pensato e costruito per pagare tangenti. I giudici di secondo grado, non a caso, citano la pronuncia con la quale il 25 febbraio 2010 la Cassazione ha condannato in via definitiva Mills, che per coprire Berlusconi dichiara il falso in aula. «Per la Fininvest – scrive la Suprema Corte – erano state create tra 30 e 50 società , costituite prevalentemente nelle Isole del Canale e nelle Vergini… Tra queste società  vi era All Iberian, con sede a Guernsey, divenuta nel corso della propria attività  “la tesoreria di un gruppo di società  offshore”… Per evitare gli effetti della Legge Mammì (che aveva fissato un tetto al possesso delle reti televisive in Italia) era stata utilizzata la società  Horizon, posseduta da Mills, che aveva costituito la società  lussemburghese Cit…».
Più avanti gli stessi giudici di Cassazione, citando un’altra sentenza definitiva emessa nella vicenda Arces, ricordano che sempre dal segretissimo «Fininvest Group B» vennero fuori le mazzette con le quali «la Guardia di Finanza era stata corrotta affinchè non venissero svolte approfondite indagini in ordine alle società  del gruppo Fininvest». E infine, ancora la Cassazione ricorda che anche «i fatti relativi all’illecito finanziamento in favore di Bettino Craxi da parte di Fininvest, sempre attraverso All Iberian, erano stati definitivamente dimostrati, sulla base di plurime prove testimoniali e documentali…».
A questo punto si può trarre qualche conclusione. Gli atti certificano, ancora una volta, che i soldi del comparto B delle società  Fininvest, direttamente riconducibile a Berlusconi, servirono a foraggiare politici e magistrati fin dai tempi della Prima Repubblica. Si conferma (come scrisse Giuseppe D’Avanzo sul nostro giornale, l’ultima volta nel luglio 2011) che sulle oltre 60 società  del Group B «very discreet» della Fininvest transitarono allora fondi neri per quasi mille miliardi di lire. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per la legge Mammì. I 91 miliardi, poi trasformati in Cct, erogati per la stessa ragione ad «altri politici» mai scoperti. Le risorse destinate da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma, tra i quali Vittorio Metta, per manipolare il verdetto sulla battaglia di Segrate. Gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Mondadori, Standa, Rinascente.
Questo dicono le carte, a dispetto delle urla di piazza del Cavaliere e delle chiacchiere da talk show dei suoi corifei. E questo, oggi più che mai, è importante e doveroso ricordare, per non cedere al «cupio dissolvi» collettivo in nome del quale si vuole riscrivere la Storia italiana di questi anni. Dice un deputato pdl: «In questi giorni che vedono le forze politiche faticosamente impegnate in una fase di pacificazione e di coesione nazionale, il Palazzo di giustizia di Milano appare sempre più come quel giapponese armato fino ai denti, inconsapevole della fine della guerra…». Ecco l’arma finale per la «distrazione di massa». In questo Ventennio, in Italia, non c’è stata nessuna «guerra». Ma anche ammesso che ci sia stata, e che ora sia finita grazie al condono tombale e morale delle «larghe intese», quello che non può finire è lo Stato di diritto. È il primato della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge.


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