Guerra di veti, Convenzione in bilico

by Sergio Segio | 7 Maggio 2013 6:36

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ROMA — Da qualche giorno il clima è cambiato. La domanda non è chi farà  il presidente della Convenzione. Ma «se» si farà  la Convenzione. Insomma, è l’ipotesi stessa della Convenzione che è in caduta libera.
Naturalmente, il Pdl ha chiesto anche ieri l’una e l’altra cosa, con la presidenza per Silvio Berlusconi («non accettiamo veti da parte di nessuno»). Tanto che La velina rossa, l’agenzia di stampa parlamentare di Pasquale Laurito, ha chiesto al premier Enrico Letta se questa rivendicazione è «parte di un accordo scritto o è solo prepotenza». E ha messo in guarda il centrosinistra: «Berlusconi vuole solo il presidenzialismo».
Preoccupazioni riprese in una lettera inviata a tutti i parlamentari del Pd, da Sandra Zampa, Pippo Civati e Sergio Lo Giudice che hanno chiesto un confronto interno ai gruppi proprio sulla convenzione per le riforme. «A giorni alterni registriamo la pressante e ricattatoria richiesta di Silvio Berlusconi ad assumerne la presidenza, leggiamo interviste del ministro Quagliariello che ne indica numero di componenti, compiti e modalità  di funzionamento, salvo metterne in dubbio l’opportunità  subito dopo. Tutto questo in un quadro di ambiguità  e incertezza che lascia intravvedere il rischio di sottrarre al Parlamento le proprie funzioni, in violazione dell’articolo 138 della Costituzione stessa che indica l’iter per la sua revisione», si legge nel testo.
È stato lo stesso Gaetano Quagliariello infatti che ha voluto mettere in chiaro che lui è «il ministro delle Riforme, non della Convenzione». Ha insinuato il dubbio: «La Convenzione? Forse non ci sarà ». E ieri ha ribadito, misurando le parole: «Si tratta di uno strumento e come tutti gli strumenti dobbiamo lavorare perché sia buono. Non è il momento di fare polemiche, ma di studiare, anche perché bisogna tenere conto di delicati equilibri costituzionali e del ruolo del Parlamento».
Insomma, la festa delle riforme appena cominciata, come diceva la canzone, è già  finita. O quanto meno in seria difficoltà . Il primo interrogativo cui rispondere è, appunto, se la Convenzione (nome che insieme evoca la rivoluzione inglese del 1689 e quella francese del 1789) possa mantenere le promesse che sembra avanzare. E il primo dubbio è se «ci sono ostacoli anche giuridici alla sua nascita». Ecco, appunto. Ad esempio Stefano Rodotà  teme che la Convenzione faccia strage della Costituzione… «Rodotà  ha riserve di natura etico-politica che io trovo legittime, senza condividerle», commenta Quagliariello.
Già , Rodotà . Il professore ha parlato della Convenzione come di un mostro politico e giuridico: «È un cattivo servizio alla politica, è un attacco ai principi costituzionali; non solo non la voglio guidare, ma mi auguro che non funzioni». Quando pronuncia queste parole ha al suo fianco Rocco Crimi, il capogruppo di M5S al Senato, che alla luce delle obiezioni sollevate da Rodotà  si domanda: «Perché fare la Convenzione? È stato eletto un Parlamento, ci sono le commissioni… Che ci stanno a fare? Il Parlamento è il luogo dove gli eletti possono fare le riforme».
Anche un ex presidente della Corte costituzionale come Piero Alberto Capotosti ha ricordato che «in punta di diritto tutto quello che prevede un percorso diverso dal tracciato dettato dall’articolo 138 della Costituzione è fuori dai binari». Del resto, a parte il diritto, anche i precedenti storici non sono incoraggianti. Si sgrana un rosario di insuccessi.
Prima la Commissione Bozzi, poi la De Mita-Jotti, poi la Bicamerale di D’Alema. Tanto che proprio lo stesso D’Alema ha suggerito di partire da un’ipotesi di minima, ma che potrebbe essere molto utile in caso di ricorso a elezioni anticipate: «Partiamo dalla riforma elettorale e liberiamoci del Porcellum, caso mai dovessimo tornare a votare»: per far muovere il Paese da quella spiaggia di Omaha Beach dov’è inchiodato da anni.

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