Grasso «contro» i senatori a vita L’irritazione del capo dello Stato
. Potrebbe sembrare uno scivolone tra i tanti che si ascoltano nei talk show politici, quando uno, infervorandosi, parla senza troppe cautele. Solo che Grasso è il presidente del Senato e con quella sua «voce dal sen fuggita» durante un’intervista a Radio Anch’io (su Rai Radiouno) si è avventurato in uno spazio che non gli compete invadere e che non sembrerebbe conoscere fino in fondo.
Ciò che ha provocato una certa irritazione al Quirinale, dove tuttavia si è preferito lasciar correre, evitando commenti pubblici. Una sortita, quella di Grasso, ispirata forse al desiderio di offrire un obliquo appoggio alle istanze di chi (il Movimento 5 Stelle) chiede un forte rinnovamento dell’accesso alla politica, ma sbagliata in radice.
In primo luogo per quel cenno alla stagione della monarchia, quando in realtà era «l’intero Senato italiano» a essere di nomina regia e ad vitam: una prassi prevista dallo Statuto Albertino e che non fu interrotta neppure durante il fascismo, per quanto anche Palazzo Madama sia stato investito dalla crisi dell’istituto parlamentare provocata dal regime mussoliniano.
Ma nell’esternazione di Pietro Grasso c’è un altro aspetto che può essere considerato inutilmente controversiale (improvvido, stando al lessico con cui si esprimerebbe il Colle), dal punto di vista del capo dello Stato. Ossia il passaggio nel quale, secondo Grasso, la carica di senatore a vita — prevista dall’articolo 59, comma 1, della Costituzione — viene descritta alla stregua di un ferrovecchio istituzionale, di cui «si può certamente fare a meno». Ora, basterebbe leggersi i verbali dei lavori preparatori della Costituente per sincerarsi dello spirito che ispirò la scelta di fare della Repubblica una «fonte di onori», oltre che «di doveri». Ecco spiegata la decisione di onorare cinque grandi italiani che abbiano «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», attribuendo loro il laticlavio senatoriale.
L’albo d’oro di Palazzo Madama (che naturalmente non comprende i senatori a vita «di diritto», cioè gli ex capi dello Stato) va da Toscanini a Paratore, da Parri a Montale, da Valiani a Bo, da Bobbio a Levi Montalcini e Luzi… Un elenco nel quale si coglie il tentativo di arricchire la nostra Camera Alta con il meglio di quella che oggi sarebbe chiamata società civile. Designazioni che si sono via via succedute, mantenendo sempre entro la soglia totale di cinque presenze in Senato il numero di questi parlamentari ad honorem. Soltanto Sandro Pertini decise di interpretare la norma costituzionale in senso estensivo, partendo dal presupposto che a ciascun presidente della Repubblica fosse possibile nominare cinque senatori. Dopo di lui, lo stesso fece Francesco Cossiga, che ne nominò motu proprio anch’egli cinque in due mesi (quattro dei quali in un giorno: Agnelli, Andreotti, De Martino e Taviani), suscitando polemiche per quello che fu ritenuto dal leader del Pci Alessandro Natta «un insopportabile atto d’imperio».
Insomma: qualche obiezione si è magari concentrata sull’opportunità politica di «allargare» il campo delle opzioni; qualche polemica ha riguardato il modo in cui è stato esercitato quel potere; nessuno però lo ha mai messo apertamente in discussione, né si è sognato di svuotare — neppure con sbrigative battute — una prerogativa sancita dalla Costituzione. Per riformare la quale, non a caso, è necessaria una legge costituzionale.
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