Giustizia, la rivolta dell’Africa “Dal Tribunale internazionale una caccia razziale a noi neri”

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STRAORDINARIA presa di posizione dell’Unione Africana, per bocca del suo presidente di turno, il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn. La Corte penale internazionale dell’Aja, ha detto il premier etiopico, è ormai uno strumento di persecuzione razziale. Ecco le sue precise parole: «L’obiettivo era di evitare ogni tipo di impunità , ma oramai il processo è degenerato in una sorta di caccia razziale».
Sono parole fortissime, specie se si considera la prudenza diplomatica, sconfinante nell’ipocrisia, che da sempre caratterizza le prese di posizione dell’Ua. Soprattutto a proposito della Corte dell’Aja, e proprio perché da anni il tribunale ha preso di mira importanti leader e capi di Stato dell’Africa. Desalegn parlava in chiusura di un vertice dei presidenti e primi ministri del continente che egli ha ospitato in questi giorni ad Addis Abeba. È evidente la sua intenzione di creare un consenso intorno a questa posizione, visto che adesso sono due, e non più uno, i capi di Stato africani che all’Aja vorrebbero vedere sul banco degli imputati. Al sudanese Omar al Bashir si è infatti aggiunto il neo-eletto keniano Uhuru Kenyatta. Il caso keniano costituisce un duplice precedente: innanzitutto Kenyatta è il primo ad essere stato scelto dai suoi compatrioti quando già  un’incriminazione pendeva sul suo capo (essa si riferisce infatti alle stragi seguite alle scorse elezioni); e poi non è il solo ad essere accusato, perché nell’identica posizione si trova il suo vice, William Ruto.
La tesi fatta propria da Desalegn non è nuova. Viene infatti quasi ritualmente argomentata dagli avvocati difensori dei criminali di guerra africani portati in giudizio all’Aja. Con particolare veemenza la sostenne, per esempio, il legale di Charles Taylor, l’ex presidente liberiano condannato nell’aprile 2012 a 50 anni di reclusione. Secondo l’abilissimo, sofisticatissimo, pagatissimo avvocato Courtenay Griffiths, nero di origine giamaicana, Taylor è stato vittima della “giustizia del vincitore”, bianca per definizione.
Inutile controargomentare che i magistrati e i giudici dell’Aja sono selezionati con il bilancino etnico e geografico, affinché possano essere considerati rappresentativi dell’intera umanità . O ricordare, come hanno fatto ieri fonti della Corte internazionale, che quattro delle otto inchieste in corso riguardanti Paesi africani sono state aperte su richiesta degli stessi Paesi. E che ben 43 Stati africani hanno firmato l’atto costitutivo della Cpi e 34 lo hanno anche ratificato, facendo dell’Africa il continente più rappresentato in seno alla Corte. Adesso questa tesi è uscita dal dibattimento giudiziale per diventare posizione ufficiale dell’Unione Africana. Al vertice di Addis Abeba, il Kenya ha proposto che i casi di Kenyatta e Ruto vengano giudicati dalla magistratura nazionale keniana, sottraendoli alla giurisdizione internazionale. La proposta è stata adottata dal summit e Desalegn ne ha tratto le conclusioni politiche espresse nel suo dirompente giudizio.
Solerti funzionari dell’Unione Africana si sono subito allineati con la presa di posizione del premier etiopico, rilasciando alle agenzie di stampa dichiarazioni in perfetta sintonia. «Non sta a un tribunale del Nord del mondo giudicare i leader del Sud», ha detto per esempio Ramtane Lamamra, responsabile dell’ufficio Pace e Sicurezza dell’Ua, alla Reuters:
sarebbe come sostenere che le Nazioni Unite non hanno legittimità  globale perché la loro sede è a New York. Ma per deboli che siano gli argomenti, la svolta dell’Unione Africana non potrà  che indebolire l’autorità  della giustizia internazionale.


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