Fiat Industrial sceglie la City e Wall Street

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MILANO — Meriterebbe riflessioni serie. Si perde nelle dichiarazioni spot. Succede che Fiat Industrial abbia depositato alla Sec, la Consob americana, il prospetto informativo dedicato alla società  che nascerà  dalla fusione con la controllata Cnh. È il primo passo verso la quotazione. Che sarà  quindi a Wall Street (Milano, forse, Borsa secondaria). Questo però si sapeva. Come si sapeva che nemmeno la sede legale sarà  in Italia: già  Cnh aveva base in Olanda, Fi Cbm Holdings Nv (il nome della nuova società , come anticipato ieri dal Sole 24 Ore) la seguirà  dalle parti di Amsterdam. I documenti presentati negli Usa non contengono però solo conferme. La novità  c’è, ed è persino più dirompente. Cambia anche la «residenza fiscale». Il gruppo presieduto da Sergio Marchionne intende «fare in modo che la struttura dei manager e organizzativa sia tale» che la newco «venga considerata residente nel Regno Unito sulla base del trattato fiscale» tra Roma e Londra.
Significa che, certo, sulle attività  italiane il Lingotto continuerà  a pagare le tasse qui. Ma è poca cosa. Anche se nei dintorni di via Nizza assicurano che nei fatti nulla cambierà , se non per gli azionisti, nel suo complesso la società  i tributi li verserà  alla casse di Sua Maestà  la Regina Elisabetta. E si capisce perché. Il tax rate totale a carico della Fiat Industrial con passaporto erariale tricolore è del 36% (il 31,4% solo di corporate tax): tradotto nell’assegno staccato al Fisco fanno 536 milioni di euro, al netto di altri 28 che se ne vanno per l’Irap. In Inghilterra, per le imprese, si scende già  adesso al 23%, che diventerà  21% nel 2014, che si trasformerà  nel 20% dal 2015.
Si dirà  che Roma, purtroppo, non è Londra. Che per come sono messi i nostri conti pubblici, ancor più massacrati da una crisi che ha portato la Repubblica a un passo dal default, non c’è margine di manovra. Vero. Vero anche, anzi soprattutto, che il peso non può essere lasciato solo sulle spalle dei cittadini e delle aziende che non se ne possono andare. E tuttavia. Criticabile quanto si vuole, la scelta di Torino mette a nudo più dei mille quotidiani allarmi alcuni dei mali che soffocano le imprese con spalle meno grandi (cioè quasi tutte). Proprio perciò meriterebbe qualcosa di più di una riflessione e qualcosa di meglio di dichiarazioni-slogan. Almeno ieri, non si è andati molto oltre.
La Fiom grida alla «delocalizzazione», come se all’estero Industrial spostasse le fabbriche, e nel silenzio degli altri sindacati chiede il solito «tavolo immediato» al nuovo governo». Governo che però, nel caso, dovrebbe parlare con una voce sola. E così (per ora?) non è. Il Pdl, con il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, pur auspicando che al Lingotto ci ripensino e ricordino «la tante risorse dello Stato» ricevute in passato, ammette che un problema generale c’è: e dunque la decisione «preoccupa», sì, ma non può non «stimolarci a creare le condizioni perché le imprese restino nel Paese, con questa concorrenza non possiamo più reggere». Il Pd, con il vice all’Economia Stefano Fassina, non pare al contrario avere dubbi: e se ovvio è l’esecutivo non sia «favorevole a che si scelga la sede fiscale in base alla convenienza», un po’ meno lo è forse sollecitare «regole che limitino la possibilità  di lasciare il peso fiscale solo su poveri cristi e piccoli imprenditori». Gran confusione. Appena cominciata.


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