Erdogan soffia sul fuoco

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Ankara vuole un nuovo «caso Libia», cioè un’altra no-fly zone, cavallo di Troia di un intervento diretto della Nato Il governo turco dell’Akp evocò per la prima volta una no-fly zone sulla Siria nel novembre 2011, quando gli scontri erano ben lontani dalla gravità  della guerra attuale, maturata grazie alle ingerenze internazionali e al ruolo chiave della stessa Turchia nel passaggio di armi e combattenti dal confine turco-siriano.
Lo stesso ha fatto a più riprese il Qatar – fra i maggiori sponsor dei gruppi salafiti che combattono contro il governo siriano – il cui primo ministro Hamad bin Jassim al Thani già  nel settembre 2012, si diceva sicuro dell’approvazione a breve di un «piano B per salvare il popolo della Siria», con zone cuscinetto e no-fly zone, sempre «per salvare vite umane». E oggi il premier turco incontra a Washington Barack Obama per ripetere la richiesta: vuole un intervento più deciso della comunità  internazionale in Siria a partire da una zona di interdizione al volo. Per gli aerei siriani, non per quelli israeliani, s’intende.
 Il caso della Libia nel marzo 2011 ha dimostrato che la no-fly zone è un sicuro cavallo di Troia per un intervento diretto. A poche ore di distanza dall’approvazione da parte del Consiglio di sicurezza Onu della risoluzione 1973 che prevedeva un’interdizione al volo sui cieli della Libia sulla base di notizie false circa attacchi aerei governativi sui civili, partirono i bombardamenti francesi dell’Odissey Dawn.
Il casus belli fu provocato dai ribelli che avevano in precedenza catturato e fatto alzare in volo un Mig governativo. Tanto bastò per una campagna di raid della Nato che durò fino a ottobre. A diversi analisti la mossa turca appare un tentativo della Turchia di sabotare – o almeno influenzare tirando la corda – una «Ginevra 2», una conferenza internazionale di pace sulla Siria sulla linea degli accordi di Ginevra del giugno 2012, dunque con un negoziato per un governo di transizione che preveda la presenza di tutte le parti e non l’esclusione a priori dell’attuale governo e in particolare del presidente Bashar al-Assad. Un difficile accordo in questo senso è stato trovato il 7 maggio fra il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e il segretario di stato Usa John Kerry. Ma la linea della Turchia, e dei cosiddetti «Amici della Siria», è che Assad deve sparire.
Per rafforzare la sua pretesa di voler «difendere i civili», Erdogan ha ripetuto che Damasco ha oltrepassato varie volte la linea rossa stabilita da Obama, usando armi chimiche contro la popolazione. Un’accusa non provata, alla quale la Siria ha risposto sostenendo di avere invece le prove che armi chimiche turche sono state usate dai «ribelli» a Khan el Assal ad Aleppo – come ha sostenuto anche l’incaricata Onu Carla Del Ponte con la morte di decine di soldati e civili pro-governativi. Per il direttore del Centro di studi sul Medio Oriente e sul Caucaso, Stanislav Tarasov, la politica della Turchia verso la Siria sta subendo un fallimento: può scegliere tra appoggiare il comunicato di Ginevra, che fra l’altro ha firmato, impegnandosi nell’elaborazione di una nuova road map, o prenderne le distanze e venendo così emarginata dal processo di pace.
Da questo punto di vista l’ultimo atto terroristico avvenuto l’11 maggio nella città  turca di Reyhanli potrebbe essere un tentativo di forze regionali di silurare la nuova conferenza sulla Siria. Aggiungeremmo che in Turchia, la sinistra radicale e studentesca è ormai da mesi in piazza contro l’impegno militare della Turchia (e della Nato) in Siria. Intanto al centro di Damasco, presso la moschea degli Omayyadi, una nuova esplosione ha fatto molti feriti. E ad Aleppo gruppi armati hanno cercato di far esplodere un’autobomba fuori da una prigione, secondo il sito londinese proopposizione Osservatorio siriano per i diritti umani.


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