E Tokyo dà  lezione all’Europa senza austerity la crescita vola

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FUNZIONA. Magari, come sostengono gli scettici, è un fuoco di paglia, ma, per il momento, la prima verifica dei dati premia la svolta strategica giapponese e la Abenomics del nuovo premier Shinzo Abe. Come un ronzino risvegliato da un brusco colpo di frusta, la letargica economia giapponese si è messa a trottare con inedito vigore. Nel primo trimestre, il Pil è cresciuto del 3,5%, rispetto ad un anno fa, un ritmo ormai sconosciuto da tempo negli altri paesi avanzati. I consumi sono vivaci, le opere pubbliche marciano, la banca centrale sta inondando il sistema di contante. All’appello della ricetta keynesiana mancano solo gli investimenti delle grandi aziende. I pessimisti fanno notare che, se Giappone s.p.a non si muove, la ripresa non è sostenibile. Gli ottimisti sottolineano che, quando si muoverà , il Pil comincerà  a correre davvero. Per ora, comunque, gli applausi prevalgono sui dubbi. Anche perché, nel mondo globale, le prime avvisaglie di un miracolo giapponese si confrontano con il cupo dramma di chi ha seguito la politica opposta, quella del rigore e dell’austerità . Solo 24 ore prima dei dati giapponesi, i dati certificavano che l’Europa è infilata nella più lunga recessione del dopoguerra. Un anno e mezzo senza soste di progressiva contrazione dell’economia, con crolli mozzafiato. Gli analisti di J. P. Morgan calcolano che, in Italia, il Prodotto interno lordo si sia ridotto del 2,3%, rispetto al primo trimestre 2012. In Spagna del 2%. Anche la Francia è in recessione e la Germania si è fermata.
E’ un momento buio. E il buio è ancora più fitto del previsto, perché un lume che dovrebbe rischiararlo c’è, ma, a quanto pare, non fa luce. La caduta dell’eurozona all’inizio del 2013 è, infatti, tanto più grave, in quanto il commercio estero — che veniva indicato come la leva per rilanciare l’economia europea — va, in effetti, a gonfie vele. Negli stessi tre mesi che vedevano il Pil avvitarsi verso il basso, l’eurozona metteva a segno il più alto attivo nei conti con l’estero dalla nascita della moneta unica: oltre 18 miliardi di euro. Le esportazioni, insomma, tirano alla grande, il surplus non è solo effetto della riduzione delle importazioni. Ma il traino della domanda estera non basta, evidentemente, a compensare lo svanire della domanda interna.
Per i critici dell’austerità  è un risultato scontato. L’esperimento, avviato all’inizio del 2010, sull’onda del crac della finanza pubblica greca, va, in effetti, contro tutta l’esperienza maturata nel secolo scorso, dalla crisi del ’29 in poi. I dati del Fondo monetario internazionale mostrano che le recessioni
degli anni ’70, ’80, ’90 furono tutte combattute con un forte incremento della spesa pubblica, a compensare il calo di quella privata: quello che, nel gergo degli economisti, viene chiamato, lo “stimolo”. Nell’ultimo caso, invece, dopo uno stimolo iniziale (soprattutto americano) nel 2008, la politica economica dei paesi avanzati chiude quel rubinetto e ferma la spesa pubblica. Rigore e austerità , risanando i conti pubblici, avrebbero dovuto creare un clima di fiducia e ottimismo, propizio ad un rilancio degli investimenti. I risultato sono stati tutt’altro che incoraggianti. Come si vede dal grafico, i paesi, come Grecia, Portogallo, Spagna, Italia che più hanno premuto sul pedale dell’austerità  sono anche quelli che hanno subito i più pesanti contraccolpi sul volume dell’economia.
E adesso? Ancora poche settimane fa, il Fmi prevedeva per il prossimo anno un arrestarsi della caduta, ma solo una pallida ripresa, che avrebbe superato l’1% unicamente in Germania. Ora, dopo i dati del primo trimestre, le prospettive sono peggiori. L’Italia, ad esempio, che avrebbe dovuto vedere il Pil scendere dell’1,5%, quest’anno, ha, in realtà , maturato questo risultato già  nei primi tre mesi. Per fermare la caduta all’1,5%, gli altri nove mesi del 2013 dovrebbero almeno centrare uno sviluppo zero. Pochi ci credono, a meno di un ripensamento radicale, fra Berlino e Bruxelles, della politica economica europea, che, al momento, non è in vista. Un sintomo della sfiducia è il costante aggiornamento (in peggio) delle previsioni delle grandi istituzioni internazionali. Prevista per l’avvio del 2013, la ripresa europea è stata spostata all’estate, poi all’autunno, ora al 2014. Ammesso che arrivi. Un analista autorevole, come Willem Buiter di Citigroup, prevede, piuttosto, per l’eurozona almeno altri due-tre anni fra recessione e pallidi aborti di ripresa.


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