by Sergio Segio | 17 Maggio 2013 7:30
Non è il Rana Plaza di Dacca la fabbrica cambogiana di scarpe dove il crollo di un mezzanino ha ucciso ieri almeno due persone (bilancio provvisorio) tra cui Sim Srey Touch di soli 15 anni, e ferito gravemente diversi lavoratori a Kampong Speu, a ovest di Phnom Penh. Le operazioni di soccorso, nella fabbrica che ospita 2mila operai, si sono svolte in fretta ma l’episodio “minore”, che non avrebbe normalmente occupato la cronaca internazionale, rimbalza sui giornali e in rete. Troppo fresca la memoria dell’implosione del palazzo del Bangladesh che ha ucciso più di 1100 persone. Fresca la polemica sulle condizioni di lavoro e sulle fabbriche in cui, nei Paesi più poveri, si lavora per i più ricchi. Qui si tratterebbe di una firma giapponese: la fabbrica appartiene a un marchio di Taiwan, Wing Star Shoes, trai cui clienti c’è la nipponica Asics, scarpe sportive, il cui acronimo starebbe paradossalmente per… Anima sana in corpore sano, latino traslato con licenza. In Bangladesh i marchi coinvolti sono invece tantissimi, da Benetton a H&M o Tesco, per citare alcuni tra quelli che, in questi giorni (ultima proprio Benetton) hanno firmato l’accordo che garantisce ispezioni nelle fabbriche perché non si ripeta una strage come a Dacca o un omicidio colposo plurimo come a Kampong Speu (disinvolta ignoranza della possibile catastrofe: un lavoratore ha testimoniato di pezzi di mattone e ferro che cadevano dal soffitto poi rovinato sotto il peso delle masserizie) .
Tra i due eventi c’è un nesso fin troppo evidente e che proprio ieri, sul New York Times, giornale di un grande Paese del tessile che delocalizza molto lavoro, era al centro di un’inchiesta che approfondiva la reazione di chi ha investito, negli ultimi trent’anni, nelle fabbriche e nel lavoro a poco prezzo dei Paesi più o meno sviluppati. E che ora, in fuga dal Bangladesh, cerca altre strade. La Cambogia ad esempio. In questo Paese, vessato dalla guerra e retrovia storico del Vietnam che lo occupò a fine anni Settanta, i salari non sono a livello del Bangladesh ma comunque al di sotto dei 100 euro/mese per i 650mila operai del settore. Le leggi, come in Bangladesh, ci sono. Pochi le rispettano.
Al Nyt Bennett Model, a capo di una “fashion factory” di New York, spiega che accostare un prodotto al nome Bangladesh è oggi “politicamente scorretto”. Per questo molti guardano altrove. E non da oggi. Model iniziò a lavorare coi cinesi nel 1975, un lustro prima che si avviasse il boom del settore in Bangladesh dove il tessile occupa oltre due terzi dell’export. Vietnam e Cambogia sono i Paesi più gettonati perché tutto sommato l’Asia resta il luogo preferito, sia per la capacità della manodopera, sia per la lunga tradizione tessile (che la rivoluzione industriale mise in crisi con i telai meccanici) sia per la reperibilità di materia prima. Anche India e Pakistan figurano nella lista per la loro capacità , tra l’altro, di garantire sistemi industriali di confezione, impacchettamento, spedizione.
L’Indonesia sembra però il preferito di questa nuova “colonizzazione”. Con l’eredità della dittatura ormai alla spalle, produce ottimo cotone (kapok) e ha già una lunga esperienza nella produzione concentratasi a Giava e Bali. Politicamente corretta e con bassi salari, per chi fugge dalla Cina (troppo cara), o da tentativi in America latina e Africa (lente nella produzione), l’Indonesia è la terra promessa: il centro di formazione di Semarang ad esempio forma 12mila persone l’anno. Poco in un Paese dove stanno per aprire 4 nuove fabbriche con 30mila nuovi posti di lavoro.
* Lettera22
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