Copertura con le accise sui giochi solo un bluff di conti sballati

by Sergio Segio | 6 Maggio 2013 6:29

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Un segnale invocabile di quanto questa droga mentale, che agita gli incubi di circa 800 mila italiani schiavi del gioco compulsivo, si sia impastata con la crisi e con la speranza folle di uscirne con una botta di fortuna.
In parallelo, giacché ogni pusher sa che i «clienti» vanno incoraggiati sennò vanno da altri spacciatori, sono aumentate di più ancora le vincite, cioè i soldi rientrati nelle tasche dei giocatori: erano 62,1 miliardi nel 2011, sono stati 70 nel 2012. Con un incremento del 12,8%. I soldi buttati dai cittadini nei vari «game» dell’azzardo pubblico sono dunque scesi da 17,7 miliardi di euro del 2011 a 17,1 nel 2012. Con un calo di circa 600 milioni di euro pari al 3,5%.
In proporzione, però, gli incassi dell’erario sono calati di quasi il doppio: il 6%. Come mai? Perché i Monopoli trattengono una determinata quota, diversa da caso a caso, sui soldi rimasti dopo avere restituito le vincite. Cioè sulla vera e propria «spesa». E mentre crollavano le somme legate ai giochi tradizionali più tassati (meno 23,2% quelli «a base sportiva», meno 24,4% sul Lotto, meno 28,4% sul Superenalotto, meno 27,8% sull’ippica) crescevano in contemporanea del 101,2%, ad esempio, quelle delle «Vlt», cioè le «videolotteries» che a differenza delle slot-machine piazzate anche nei bar accettano anche banconote ed esistono solo nelle sale dedicate.
Fatto sta che lo Stato, trattenendo su questa «spesa» finale al netto delle vincite restituite il 47,3% («una tassazione seconda solo al comparto delle accise sulla benzina», dicono ai Monopoli) nel 2012 ha incassato in totale 8 miliardi e 100 milioni di euro. Cioè mezzo miliardo in meno del 2011. Gli altri 9 miliardi, pari al 52,3%, finiscono alla filiera, cioè a concessionari, esercenti, tabaccherie, agenzie, intermediari, fornitori di macchinari, sistemi e software. Un settore che, stando all’Agenzia statale, vede circa «6.600 imprese, con un bacino occupazionale di oltre 150 mila addetti, se si considerano anche coloro che operano nel gioco unitamente ad altre attività  come, ad esempio, gli esercenti, le tabaccherie».
È «cosa buona e giusta» abolire l’Imu, come ripete Berlusconi, perché «produce negatività  nelle famiglie che hanno incertezza sul loro futuro e consumano meno»? Certo è che chi segue il settore dei giochi è convinto che sia praticamente impossibile farlo con la ricetta proposta dal Cavaliere: una «revisione delle accise sui giochi, sul lotto».
Sia chiaro: chi è convinto come noi che l’azzardo sia una pestilenza, come ci ricordano anche traumi quali quello di Luigi Preiti che giorni fa sparò davanti a Palazzo Chigi ferendo i due carabinieri («L’ha rovinato il demonio del gioco», dice la moglie), sarebbe tentato di annientare il settore mettendoci le tasse più alte del Creato. Se servisse, però. Il guaio, riconoscono anche i peggiori nemici, è che non si risolverebbe il problema.
Anzi, se c’è del vero nella tesi che l’irruzione dei Monopoli con le sue slot-machine e i suoi giochi legali (380 mila apparecchi distribuiti sul territorio nazionale) ha in qualche modo riassorbito almeno una parte del gioco fuorilegge in mano alle mafie, è possibile che una marcia indietro sarebbe controproducente. E che l’improvviso ritiro dello Stato dal settore, dopo dieci anni passati a spingere gli italiani verso questa specie di crack mentale, potrebbe spalancare spazi enormi alla criminalità  organizzata che già  gestisce nell’azzardo illegale un’altra ventina di miliardi. E spingere ancora di più gli schiavi del gioco verso gli «sportelli» stranieri.
Già  oggi, proprio contando sul vantaggio di non pagare tasse, l’immenso casinò virtuale del Web agganciato a banche di Paesi compiacenti e Stati-canaglia sparsi per il globo, rastrella enormi risorse italiane. Secondo la stima della società  inglese Ficom Leisure, considerata la più attendibile e ripresa dall’agenzia Agipronews.it, nel solo 2012 «il volume di gioco dei casinò online “.com”, la definizione in sintesi delle case da gioco su Internet non autorizzate che naturalmente sfuggono al sistema fiscale italiano» è stato di 9,2 miliardi di euro. Il doppio abbondante del peso dell’Imu sulla prima casa. Bene: di tutti quei soldi dei nostri giocatori molti sono tornati con le vincite, ovviamente, ma quelli espatriati e finiti nei conti all’estero di chissà  quali società  anonime sono stati 276 milioni. Un milione in più dello stanziamento così faticosamente recuperato a gennaio per i disabili. Con un aumento di 44 milioni di euro sul 2011. E il fenomeno, dicono gli esperti, è destinato a crescere, crescere, crescere.
Gelano il sangue, certi numeri. Come i dati di «Source H2 Gambling Capital», che si discostano appena dalle stime dei Monopoli. E dicono che su un monte di 321 miliardi di euro spesi nel mondo nel 2012 nei giochi legali (ripetiamolo: 321 miliardi netti, rimasti agli organizzatori dopo aver pagato le vincite) circa il 25% dei denari buttati nell’azzardo era americano, il 15,6% cinese, il 9,7% giapponese e quasi il 6% italiano. Quarti al mondo.
Siamo i primi in Europa, in questa classifica che non ci fa onore. I primi. Stiamo arrancando da due decenni, non arriviamo al 3% del Pil mondiale ma consegniamo ai biscazzieri il 6% degli incassi planetari. Il doppio dei tedeschi, che pure sono molto più ricchi e ben messi di noi. Prova provata, purtroppo, che c’è uno spread che non può essere aggiustato dalla Bce. Ma solo da noi.

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