Ciampi e la notte delle bombe del ’93: dissi a Scalfaro che ero pronto a lasciare

by Sergio Segio | 22 Maggio 2013 6:57

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Ieri il presidente della Corte d’assise Alfredo Montato ha ribadito ciò che già  era chiaro: se verrà  confermata, la deposizione del capo dello Stato (per adesso dichiarata solo ammissibile) non potrà  riguardare le conversazioni intercettate casualmente lo scorso anno tra lo stesso Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza. Perché la Corte costituzionale ha stabilito che erano protette da un riserbo «assoluto», e per la banale ragione che non esistono più: proprio in virtù del verdetto della Consulta un altro giudice ha ordinato e fatto eseguire la distruzione delle registrazioni.
La Procura aveva già  escluso questo argomento dalla testimonianza del capo dello Stato, limitandola al contenuto di una lettera ricevuta nel luglio scorso dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto per infarto poco dopo. In quella missiva D’Ambrosio confidava al presidente di nutrire sospetti su «indicibili accordi» stipulati alle sue spalle nella stagione delle bombe, tra il ’92 e il ’93, mentre lui lavorava alla legislazione antimafia. I pubblici ministeri vorrebbero chiedere a Napolitano se è in grado di approfondire quel riferimento, e su questo punto la testimonianza è stata giudicata ammissibile. Rigettata invece la richiesta delle parti civili rappresentate da Salvatore Borsellino e dall’europarlamentare Sonia Alfano di sentire il capo dello Stato anche sulle «eventuali confidenze» ricevute da Mancino nelle conversazioni intercettate e ora distrutte.
Potrebbero invece arricchirsi di nuovi argomenti le domande per il predecessore di Napolitano al Quirinale, Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio nella primavera-estate del 1993, quando Cosa Nostra scatenò la campagna terroristica in continente con gli attentati di Firenze, Roma e Milano. La Procura vorrebbe che riferisse su «quanto accadde nella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993 anche con riferimento all’allarme conseguito alla contemporaneità  tra gli attentati perpetrati a Roma e Milano e il black out delle linee elettriche e telefoniche a Palazzo Chigi». E a proposito di quella drammatica notte, i diari dell’ex capo dello governo e dello Stato appena pubblicati nel volume Contro scettici e disfattisti – Gli anni di Ciampi 1992-2006 (curato da Umberto Gentiloni Silveri, edito da Laterza) contengono alcune novità  che potrebbero diventare oggetto della testimonianza. Compresa l’offerta di dimissioni dall’incarico che il presidente del Consiglio offrì al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Alla data del 28 luglio 1993, poche ore dopo le esplosioni notturne che tra Roma e Milano provocarono cinque morti e decine di feriti, Ciampi annotò «le preoccupazioni accresciute dal fatto che si interrompe, verso le 0.20, il funzionamento del telefono collegato con il centralino di Palazzo Chigi». E aggiunse: «Ore 8.30 riunione a Quirinale. Dopo Scalfaro e Mancino prendo la parola per dire: a) sono pronto a dimettermi per quanto accaduto e anche perché si può ritenere che il governo sia più debole in quanto presieduto da un tecnico… Scalfaro mi interrompe per respingere decisamente la mia offerta di dimissioni, aggiungendo che non devo esprimere con chicchessia questo intendimento; b) sostengo che occorre cambiare i vertici, senza alcun dubbio al Sisde, propongo di considerare anche il cambio al Sismi e al Cesis (i due servizi segreti, civile e militare, e l’organo di coordinamento, ndr). Mancino si dichiara sostanzialmente d’accordo. Il presidente Scalfaro, che non si pronuncia su quest’ultimo punto, fa entrare il ministro della Difesa Fabbri e il capo della Polizia Parisi».
La discussione proseguì con Fabbri che difese il capo del Sismi e Parisi «contrario a ogni mutamento». Poi il capo della Polizia lasciò il Quirinale, e Scalfaro con Ciampi e i due ministri decisero di sostituire il solo capo del Sisde. Il diario di Ciampi prosegue con le valutazioni di Parisi sulle bombe appena esplose: «Gli attentati da maggio in poi hanno un unico disegno: intimidire il governo; per quelli di stanotte non esclude una possibile coincidenza con lo sciopero degli autotrasportatori, per sfruttare le tensioni, i problemi creati dalla vertenza stessa, fortunatamente conclusa poche ore fa; particolarmente rilevante la contemporaneità  a Milano e a Roma; hanno agito tre comandi; mostra scetticismo sulla matrice “mafia” almeno come origine; ritiene azzardato ogni riferimento a vecchi uomini politici».
Nell’impostazione dell’accusa il prefetto Parisi, considerato molto vicino a Scalfaro, fu uno degli intermediari della trattativa, e se non fosse morte sarebbe tra gli imputati di minaccia a un corpo politico dello Stato insieme ad altri rappresentanti delle istituzioni. Scalfaro invece, sempre secondo i pm, quando fu interrogato in istruttoria non avrebbe detto la verità  sulla sostituzione dei vertici dell’amministrazione penitenziaria, decisa in quel periodo.
Giovanni Bianconi

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