by Sergio Segio | 15 Maggio 2013 7:31
Ci sono due buone notizie oggi sul Bangladesh. Una viene dall’Italia, dove l’amministratore delegato di Benetton Group ha fatto sapere che l’azienda di cui è a capo sottoscrive il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un accordo che prevede controlli stringenti sulla sicurezza nel settore manifatturiero locale di cui anche Benetton è cliente. Ciò significa per il gruppo trevigiano un esborso per garantire i controlli ma, soprattutto, un’assunzione di responsabilità , seppur tardiva, che le rende merito e soprattutto cancella le ombre che il crollo aveva disegnato sulla firma italiana famosa nel mondo col marchio United Colors of Benetton. L’altra arriva dal Paese dove il crollo del Rana Plazza ha imposto un’accelerazione sugli accertamenti che riguardano la sicurezza delle fabbriche tessili con la conseguente chiusura preventiva di 200 impianti.
A Dacca sono stati gli industriali che fanno capo alla potente Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (Bgmea) a decidere la chiusura di 200 fabbriche tessili a tempo indeterminato. Forse non l’avrebbero fatto se il Paese non fosse attraversato da proteste continue – innescate dal crollo dell’edifico della capitale che ha ucciso oltre mille persone – e che non si sono fermate nemmeno ieri, a venti giorni dall’implosione. La decisione segue di qualche giorno quella del governo che aveva deciso la chiusura di 16 filande per controlli sulla sicurezza. L’annuncio dei sigilli ai 200 stabilimenti è stata data da Atiqul Islam, il presidente della Bgmea in una conferenza stampa tenuta nella capitale.
Il passo di Benetton arriva invece dopo che la Campagna “Abiti puliti” aveva indicato nella società trevigiana una delle firme italiane coinvolte nel crollo. Ancora oggi l’azienda avanza distinguo spiegando che «nessuno dei laboratori presenti nel palazzo crollato è fornitore, diretto o indiretto, di nessuno dei marchi di Benetton Group» ma ammette che «tra il 2012 e il 2013 due ordini occasionali erano stati subappaltati da un nostro fornitore estero a New Wave Style, tra le aziende che operavano all’interno del Rana Plaza». L’ultimo dei due ordini, spiega una nota dell’azienda, è stato «completato e spedito un mese fa… ma già da allora, tuttavia, questo laboratorio era stato rimosso definitivamente dall’elenco dei nostri potenziali fornitori diretti o indiretti, avendo l’azienda rilevato che erano venute a mancare le condizioni per qualsiasi rapporto di fornitura con New Wave Style».
Come i lettori ricorderanno, la pubblicazione di alcune foto di etichette e ordini targati Benetton avevano messo in mora l’azienda che, inizialmente, aveva negato qualsiasi collaborazione con le fabbriche tessili coinvolte nel crollo di Dacca, tra cui appunto la New Wave. Ma quel che è rilevante è comunque la decisione di aderire all’accordo.
Dice testualmente Biagio Chiarolanza, ad di Benetton Group e responsabile dell’area produzione: «In seguito ai tragici eventi legati al crollo del Rana Plaza Building di Dacca, abbiamo deciso, come preannunciato pochi giorni fa, di essere in prima linea in uno sforzo condiviso da tutte le aziende per contribuire a migliorare in modo significativo e definitivo le condizioni di sicurezza e di lavoro dei lavoratori impiegati nel settore tessile in Bangladesh…. consapevoli che la disgrazia di Dacca chiama in causa l’intero settore, oggi abbiamo sottoscritto i princìpi e i termini dell’accordo Fire and Building Safety, un’iniziativa organizzata e supportata dall’Organizzazione mondiale per il lavoro, alla quale partecipano, al nostro fianco, anche altre aziende del settore, sindacati internazionali e organizzazioni non governative». È la stessa Benetton a spiegare che l’impegno insito nella firma: «prevede per i prossimi cinque anni l’adozione di misure – ispezioni, progetti di training e investimenti – che porteranno concretamente a garantire anche la sicurezza degli edifici dove operano produttori bengalesi del settore, sia in termini di solidità strutturale sia in termini di sicurezza antincendio».
Non è l’unico passo avanti. L’Organizzazione internazionale del lavoro sta preparando un accordo di revisione sui salari di chi lavora in quelle fabbriche spesso per circa un dollaro al giorno, in condizioni di semi schiavitù e di sicurezza incredibili. Sindacati, governo e imprenditori dovrebbero adesso accordarsi per minimi salariali più congrui e che comunque consentiranno ancora lauti profitti ma permetteranno anche che le aziende clienti non lascino il Paese (come qualcuno ha già fatto), mettendo in difficoltà un’economia che si regge sul boom tessile (venti miliardi l’anno) e occupa tre quarti dell’export. E che fino a oggi i salari da fame degli operai locali hanno in gran parte contribuito a tenere in salute.
Lettera22
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