by Sergio Segio | 14 Maggio 2013 6:43
«Almeno 15 morti e 30 feriti, un ristorante del tutto distrutto e un altro edificio molto danneggiato», ha dichiarato il viceministro degli Interni Abdallah Massud, mentre testimoni ritengono che il bilancio delle vittime sia più alto. «Un’autobomba comandata a distanza, zeppa di esplosivo», ha rivelato la polizia, anzi due auto vicine esplose in sequenza, sostengono altre fonti. In realtà mancano molti dettagli e nessuno ha rivendicato la strage. Mentre si raccoglievano i corpi dilaniati tra macerie e rottami, anche di donne e bambini, una manifestazione spontanea si è formata nell’area colpita per dirigersi in centro gridando la voglia di pace e la rabbia per l’impunità delle milizie, islamiche e non solo. «Svegliati Bengasi», qualcuno urlava, riprendendo lo slogan dell’insurrezione poi diventata rivoluzione nel 2011.
Negli ultimi tempi attentati e attacchi sono stati quasi quotidiani a Bengasi, ma avevano come oggetto sedi della polizia, rappresentanti delle forze dell’ordine, funzionari. Oppure, andando indietro all’11 settembre 2012, il consolato Usa: l’assalto alla sede diplomatica costò la vita all’ambasciatore americano Chris Stevens e a tre suoi connazionali, con serie ricadute politiche anche sull’amministrazione Obama per come gestì quella crisi, attribuita inizialmente a una protesta spontanea e non, come poi emerse, al piano di un gruppo qaedista. Ancora ieri il presidente Usa ha dovuto risponderne all’opposizione repubblicana.
E anche a Bengasi si torna a parlare di quell’evento: fonti locali hanno infatti rivelato che tra i sospettati dell’attentato di ieri ci sarebbero salafiti e qaedisti vicini agli autori dell’attacco a Stevens. Sarebbe un loro «segnale» perché venga chiusa ogni inchiesta. Un altro filone delle indagini punta invece ai gheddafiani. I tanti superstiti del regime caduto ancora in circolazione, forti del molto denaro mai recuperato dal nuovo governo, delle tante armi reperibili ovunque e della particolare avversione verso la città ribelle della Cirenaica, non sono mai spariti. Ma ora con il crescente indebolimento del governo di Ali Zeidan alzano la testa.
La crisi politica della Nuova Libia si è infatti aggravata e la riunione d’urgenza del governo di ieri pomeriggio, con parole di condanna per «l’atto terrorista» e promesse «di arrestare e portare in giudizio al più presto i colpevoli» non trae in inganno nessuno. Il recente braccio di ferro nella capitale tra le milizie vicine ai Fratelli Musulmani e il fronte laico di maggioranza, con tanto di occupazione di due ministeri da parte delle prime, si è concluso con un’apparente pacificazione. In realtà ha visto l’avanzare della Fratellanza che è riuscita a imporre con la forza una legge destinata a vietare da giugno ogni carica politica e pubblica a chiunque abbia avuto contatti anche minimi con il vecchio regime. Una misura che riguarda mezzo milione di persone tra cui noti politici laici che di Gheddafi furono a fianco solo all’inizio e in parte, a partire dall’ex premier del consiglio transitorio Mahmoud Jibril, attuale capo dell’Alleanza delle forze nazionali ovvero del primo partito libico.
L’occupazione dei ministeri è finita da pochi giorni, a Tripoli. A Bengasi che piange ancora una volta i suoi morti sono arrivate le forze speciali per presidiarla. Ma l’allarme resta altissimo: Usa e Francia hanno evacuato parte del personale diplomatico e il Pentagono, si è saputo ieri, ha spostato dalla Spagna a Sigonella 500 marine per «intervenire rapidamente nel caso di nuovi attacchi agli americani in Libia».
Cecilia Zecchinelli
(ha collaborato Farid Adly)
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