All’estero i soldi dell’Ilva, nuova bufera sui Riva

by Sergio Segio | 23 Maggio 2013 6:51

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ROMA — Quel miliardo e duecento milioni di euro sarebbero dovuti servire per rendere migliore l’aria di Taranto. Per evitare che i tarantini si ammalassero di tumore o che fossero costretti a rimanere a casa, in cassa integrazione. Invece sono finiti prima su conti esteri per sfuggire alle tasse, e poi fatti rientrare in Italia tramite lo scudo fiscale e depositati non nei bilanci dell’azienda, ma su quelli della famiglia Riva. Che grazie a un “patto di famiglia” avrebbe costruito un complicato impianto di scatole cinesi per ingannare Stato e lavoratori e aggirare il fisco. Quell’impianto è però ieri stato smascherato dalla Guardia di Finanza di Milano, che ha sequestrato il miliardo e duecento milioni di euro, perquisito le loro abitazioni e notificato un avviso di garanzia per truffa ai danni dello Stato e trasferimento fittizio dei beni ai due “vecchi” della famiglia, Emilio (ai domiciliari per l’inchiesta di Taranto sul disastro ambientale) e Adriano.
L’indagine ipotizza che in tre momenti — nel 1995, nel 1997 e in un terzo periodo che va dal 2003 al 2006 — i Riva avrebbero drenato soldi dalla Fire Finanziaria (trasformatasi in Riva Acciaio e infine in Riva Fire), la cassaforte dell’acciaieria, in società  estere e offshore che facevano riferimento sempre a esponenti della famiglia. Il denaro, dopo essere transitato in Lussemburgo, finiva — come aveva raccontato Repubblica nei mesi scorsi — nel paradiso fiscale di Jersey. «Si tratta di somme — scrive il giudice — chiaramente provento di appropriazione indebita aggravata e continuata, dichiarazione fraudolenta, false comunicazioni sociali e infedeltà  patrimoniale. I prezzi delle cessioni erano artificiosi e funzionali a frodare, spostando liquidità  dalla
holding alle persone fisiche, dal-l’Italia all’estero». In un primo momento i Riva — che si sono avvalsi di due commercialisti milanesi, Franco Pozzi e Emilio Ettore Gnech, indagati per riciclaggio — lo avrebbero fatto per sottrarre quelle somme alla tassazione italiana. Quando poi è arrivata l’occasione dello scudo fiscale, sfruttando la complicatissima operazione di ingegneria finanziaria che avevano organizzato, li hanno regolarizzati («pur non potendo, perché uno dei Riva era residente in Canada» dice il giudice). Facendoli transitare però nelle proprie disponibilità . La prova sta nel fatto — sostengono gli investigatori di Milano — che nel marzo scorso i Riva abbiano provato a modificare la giurisdizione dei trust al centro delle indagini (Orion, Sirius, Venus, Antares, Lucam, Minerva, Paella e Felgam) per cercare di mettere a sicuro quel denaro dalla possibile aggressione della procura di Taranto.
Nei mesi scorsi i Verdi avevano presentato in Puglia una denuncia chiedendo di sequestrare in via cautelativa i circa 4 miliardi di euro che i Riva si erano impegnati a investire per l’ambiente. Proprio in quel momento era apparso chiaro agli investigatori tarantini come il capitale dell’azienda fosse sparso (come poi ha confermato l’indagine di Milano) in società  in giro per il mondo e protetto da leggi di paradisi fiscali. Dalle carte milanesi viene fuori poi un altro particolare: fermo restando che Emilio fosse il capo indiscusso che decideva «da solo sulle questioni di maggior rilevanza» esisteva un “patto di famiglia”, firmato nel 2005, attraverso il quale venivano concordate le modalità  di gestione del gruppo, con tanto di «membri attivi» con diritto di voto (Fabio, Claudio, Nicola, Cesare ed Angelo), membri «onorari » (Emilio, Adriano e Laura Bottinelli) e semplici «osservatori» (Emilio, Massimo) che non avevano il diritto di voto. «Il patto — scrive il giudice — serviva ai Riva per concordare le modalità  di gestione delle società  del gruppo ed i relativi poteri decisori: il voto di Emilio senior valeva il 60 per cento ».

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