Addio a don Gallo, il prete degli ultimi una vita in strada sul filo dell’eresia

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GENOVA — Dicono che il cuore abbia cessato di battere alle ore 17: 45 di ieri, ma non è vero. Il cuore di don Andrea Gallo continua a pulsare. In direzione ostinata e contraria, come ha sempre fatto. Come quello di Fabrizio De André, che con il “prete degli ultimi” aveva stretto un’amicizia forte e discreta, molto genovese: «Perché non vuole fare di tutto per mandarmi in paradiso», mugugnava — sollevato — il cantautore. E nemmeno il “don” ci ha mai pensato, all’aldilà . Troppo impegnato a «restare umano», come gli piaceva dire. Se ne è andato ieri pomeriggio, nonostante un diluvio di preghiere — «Anche quelle di noi atei: non mollare proprio ora!», gli tweettavano, irriducibili — , confortato dall’amore dei suoi ragazzi della Comunità  di San Benedetto al Porto. A luglio avrebbe compiuto 85 anni.
Giovedì scorso un caffè bevuto in canonica con Davide Ballardini, l’allenatore di calcio che qualche giorno prima aveva contributo alla salvezza del “suo” Genoa. Poi si è messo a letto nel suo piccolo studio, circondato dalle immagini dei cari — la mamma Maria Tomasina, Papa Giovanni, Don Bosco — , ad aspettare. A ripensare a una vita ribelle e indomita, avventurosa e solidale. Sempre al servizio dei dimenticati. Sempre e comunque contro.
«Mi restano poca carne, ossa malandate e una testa sempre più balenga», mormorava l’altro giorno. Ma no, è sempre stato un leone. Fino all’ultimo istante e da quando era ventenne e novizio, con i Salesiani a Varazze. Le missioni in Brasile però c’era la dittatura ed era tornato — frustrato, ancora obbediente — a Genova. Da sacerdote, il primo esemplare incarico: la Garaventa, navescuola riformatorio per minorenni in grado di “raddrizzare” anche le teste più dure. Non quella di don Gallo, ostinato e contrario: per tre anni cercò di introdurre un metodo educativo basato sulla fiducia e la libertà , conquistandosi l’affetto dei giovani ma gli anatemi dei superiori, che lo costrinsero a lasciare l’incarico. A quei tempi nei carruggi era una vita che non si facevano prigionieri, però questo “strano” prete riusciva a toccare le corde dei più deboli. E quando il cardinale Giuseppe Siri, conservatore come nessuno mai, ne ordinò il trasferimento — «I contenuti delle sue prediche non sono religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti» — , nell’angiporto scoppiò una rivoluzione che era un urlo di libertà , un anelito di amore.
Don Federico Rebora nei primi anni Settanta lo accolse nella parrocchia di San Benedetto. «Così è cominciato tutto», raccontava don Andrea, e intanto gli veniva una bella luce negli occhi. I vicoli, un tossicomane agonizzante. «A quei tempi l’eroina era quasi sconosciuta, gli ospedali rifiutavano il ricovero perché per la legge di allora i consumatori dovevano essere arrestati. Ma il ragazzo stava morendo. Dove lo porto?». In chiesa ogni giorno era già  un viavai di disperati. «È nata la Comunità  di San Benedetto». La battaglia per riconoscere i tossicodipendenti come malati. L’accoglienza dei disperati, degli ultimi. Di quelli che tutti rifiutavano. Anche i trans del “ghetto”, che nella Comunità  trovano finalmente una zona “franca” dove potersi sentire come tutti gli altri. Amati, compresi.
Senza volerlo Don Andrea diventa un simbolo, una bandiera. Con i fatti, con l’esempio di ogni giorno. Perché ci mette sempre la faccia, basta chiamarlo per una causa “giusta”, e cioè perdente: disponibile, infaticabile. Un provocatore, se serve. «La droga è una sostanza, in sé non è un bene o un male. Dipende dall’uso che se ne fa». Confessa: «Ho ceduto alle tentazioni della carne, fra i trenta e i quarant’anni. Un peccatore sì, ma non incallito». Con quel sigaro ad ingiallirgli le dita e il cappello nero, in prima linea nei giorni del tragico G8 di Genova. Una carezza per Carlo Giuliani, il ragazzo di piazza Alimonda. Un anno fa sponsor determinante di Marco Doria, sindaco arancione che spariglia la tradizione Pd. Il mese scorso l’ultima battaglia pubblica, a favore di un teatro genovese che rischia la chiusura, il Modena. Ormai parlava a fatica: «Scusate, se non riesco a chiudere le parentesi. Ma non mi arrendo». No, non si è mai arreso. Ed è per questo che nei vicoli di Genova dicono che il cuore di don Gallo continui a battere.


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