Vertici settimanali con i capigruppo

by Sergio Segio | 28 Aprile 2013 6:51

Loading

ROMA — Per il governo sarà  più facile conquistare la fiducia dei mercati che quella del Parlamento, abbassare lo spread che diminuire la tensione dei partiti che lo sostengono. Il primo a saperlo è il presidente del Consiglio, consapevole che un conto sarà  ottenere il via libera delle Camere la settimana prossima, altra cosa sarà  garantirsi la maggioranza nei mesi che verranno. Ecco perché, quando ancora non aveva annunciato la lista dei ministri, Enrico Letta si era già  premurato di approntare un «piano antiscivolone», che è come mettere la para alle scarpe per evitare la caduta.
Certo, Napolitano — che ha definito «politico» un governo con le stigmate del «presidente» — farà  per quanto possibile da scudo protettivo al premier. Tuttavia, dopo la guerra dei venti anni, gli ultimi due mesi di incomunicabilità  tra Pd e Pdl hanno lasciato un ulteriore segno nei rapporti. Se a ciò si aggiungono gli scontri per l’assegnazione dei dicasteri e per il cambio generazionale, non c’è dubbio che il rischio per Enrico Letta sia quello di veder regolare i conti tra e dentro i due maggiori partiti nelle aule di Camera e Senato.
Ecco, dunque, cosa lo ha spinto a elaborare insieme a Franceschini una strategia per tenere quanto più possibile un raccordo stretto tra il governo e i gruppi della nuova «strana maggioranza». Per questo al ministro per i rapporti con il Parlamento toccherà  ogni settimana organizzare un vertice con i capigruppo di Montecitorio e Palazzo Madama, per stabilire l’agenda dei provvedimenti da esaminare e concordare anzitempo le eventuali correzioni. D’altronde è facile far passare un agguato politico per un passo falso legislativo, e non c’è luogo migliore delle Assemblee per compiere il gesto.
Perciò Enrico Letta ha pensato fosse meglio premunirsi, magari per tentare di sovvertire i pronostici di palazzo che hanno già  messo una data di scadenza, visto che i più ottimisti traguardano l’orizzonte dell’esecutivo all’anno prossimo, in concomitanza delle Europee. Toccherà  al premier smentire le previsioni, e nel frattempo sarà  suo compito svelenire il clima nella maggioranza, dove in queste ore si incrociano e si sommano la delusione per chi è rimasto fuori dal governo e le intenzioni bellicose di chi questo governo non avrebbe voluto farlo nascere.
Nel Pd quello che più di tutti si è battuto per far partire l’esperimento è stato proprio quello che ha visto fallire il suo esperimento. Bersani infatti ha spalleggiato il premier anche nella decisione di voltare pagina sulla compagine ministeriale, convinto che fosse necessario dare «un segno tangibile di novità  e di freschezza» alla squadra, sebbene fino all’ultimo — fino a poche ore dall’annuncio — D’Alema avesse insistito per essere messo in lista. Ma a protezione di Enrico Letta, oltre Bersani, c’è stato anche Napolitano.
Malgrado tra il capo dello Stato e il leader dimissionario dei Democrat sia rimasta della ruggine dopo il conflitto degli ultimi due mesi, entrambi sono convinti che (anche) per stabilizzare il quadro politico sia necessario dar vita alla Convenzione delle riforme. Semmai il progetto riuscirà  a vedere la luce, il punto sarà  stabilire a chi assegnarne la presidenza. E già  i centristi spingono perché venga affidata a Berlusconi, solo così il governo resterebbe saldo in sella. Non mancano le controindicazioni e soprattutto l’ostilità  del Pd, dove si avverte la rivolta solo a immaginare di votare per il Cavaliere.
Servirà  del tempo per rimarginare vecchie ferite, ma di tempo non ce n’è, a prendere per vera la battute fatta ieri dal Cavaliere. Quel «dura minga», riferito alla durata del governo, serviva a consolare quanti del Pdl sono rimasti fuori dall’esecutivo, o a preparare davvero il partito alle urne? E la sua dichiarazione «non ho messo paletti», è stato un modo per non attribuirsi la paternità  dell’esecutivo o per offrire agli italiani l’immagine di chi si è sacrificato nel supremo interesse nazionale? Ed è vero — come si evinceva ieri dalla durissima nota dell’ex ministro Fitto — che la lista dei ministri, nella sua intierezza, è stata svelata all’ultimo momento? O è vero invece che Berlusconi ha aiutato il premier incaricato a tener fuori dall’esecutivo l’ala dura del partito?
Due cose sono certe. Intanto il gelo del Pdl verso Alfano, che ieri ha ricevuto gli auguri pubblici di Maroni ma non dei suoi colleghi, e che — raccontano autorevoli dirigenti — sarebbe precipitato nei rapporti con il Cavaliere. Ma il dato politico più rilevante emerso dallo stato maggiore berlusconiano è che, se davvero l’ex premier volesse ricandidarsi a Palazzo Chigi, «avrebbe sei mesi di tempo, non di più. E lui lo sa». L’idea che possa far saltare il banco, sfruttando a mo’ di pretesto la mancata revisione dell’Imu da parte del governo, resta in campo e Brunetta già  s’intesta la battaglia. Però non sarà  affatto facile, specie dopo che il capo del Pdl ha dato il via libera alla nomina di Saccomanni all’Economia.
Più volte Berlusconi, ancora nell’intervista al Corriere dagli Stati Uniti, aveva respinto apertamente l’ipotesi di affidare quel dicastero all’uomo di Bankitalia. Se ieri ha accettato la scelta c’è un motivo, sta nel ragionamento che gli ha fatto Monti, che — riferendosi a Saccomanni — lo ha descritto come una personalità  «capace e competente», «non estrosa e nemmeno bizzosa. Ma soprattutto, Silvio, è gradito a Draghi»…
Francesco Verderami

Post Views: 159

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/04/vertici-settimanali-con-i-capigruppo/